Un incidente in un incrocio romano, due auto che urtano violentemente, uno dei due autisti che resta ferito e intrappolato. In strada solo un passante. Così almeno pensa la signora Daniela che dalla finestra di casa – riferisce al Messaggero – assiste a quel triste rituale metropolitano. S’accorge però presto che il soccorritore invece di provare a estrarre il ferito dalle lamiere prende dalla tasca un cellulare.
INVECE DI TENTARE di modificare la scena, aprire un varco al malcapitato o soltanto recargli conforto nell’attesa di un’ambulanza, inquadra. Fotografa. E scatta, scatta, scatta. Tutta roba buona per Facebook, Twitter oppure Instagram. A tanto è giunta questa nostra sottomissione ai social network. Un potere onnipotente e disumano che ci costringe, per farvi parte, di esserci a qualsiasi costo. È come se internet ci avesse cavato dalle budella un desiderio insopprimibile di segnare la nostra presenza per qualunque ragione, in qualunque contesto. In questo processo di progressiva schiavizzazione dai nuovi riti che la community ci assegna, la nostra identità è ridotta alla misura minima della presenza inconcludente, a cui non è chiesto un atto di responsabilità, di partecipazione, di solidarietà ma di testimonianza muta e piuttosto spaventosa. Io c’ero e ho scattato la foto.
GIÀ QUESTO COSTUME di filmare e fotografare ogni dettaglio della nostra vita ha un che di abnorme, di efferato, di irriguardoso verso un minimo, essenziale dovere di riservatezza che dovremmo agli atti privati della nostra esistenza. Se poi l’ossessione si manifesta nei riguardi degli altri, di chi conosciamo e di chi nemmeno conosciamo, di chi è in piedi e in buona salute e di chi invece ferito giace per terra, allora il nostro comportamento diviene vera e propria devianza, disabilità civile. Una angosciosa forma di narcisismo collettivo della quale c’è solo da atterrirsi. da: Il Fatto Quotidiano 11 febbraio 2015