Ogni corrotto ha un gusto, un’età e un autore a cui è affezionato, una passione travolgente che l’ha convinto a infrangere le regole, favorire l’uno o l’altro pur di sentire suo l’artista.
Alcuni giudici brasiliani hanno pensato di far condividere al popolo l’estetica della politica e raccogliere in un grande allestimento al Mon (Museo Oscar Niemeyer) di Curitiba l’arte confiscata, cioè il frutto della corruzione. Finora, riferisce La Nacion, sono 272 i mirabili pezzi esposti e danno il senso di quale sia per il potere l’affezione ai grandi che hanno dipinto ed emozionato il mondo.
I giudici hanno fatto come quei cacciatori d’Africa: esibito i loro trofei e insieme, pietra su pietra, raccolto le prove che non solo la corruzione è un’arte ma che dalla corruzione può rinascere l’arte. In Italia da anni lavora alacremente e con buoni risultati l’Agenzia nazionale che gestisce la confisca ai malandrini di ogni risma, organizzati e anche disorganizzati, i frutti della loro pratica criminale.
CASE, TERRENI, pure quadri, naturalmente automobili di diversa metratura e valore, e ogni altro ben di Dio. Riferimmo poche settimane fa di una leonessa, oggetto del desiderio di un camorrista con il piacere di una Savana benigna e casalinga, che lo Stato è costretto a sfamare in un pensionato per animali degli Abruzzi. E non aggiungiamo di serpenti a sonagli, uccelli tropicali, pesci rari che il nostro governo ha identificato e sottratto alla malavita. Ciò che manca in Italia, e l’iniziativa brasiliana potrebbe suggerirne la realizzazione, è un polo espositivo, magari guidato da un manager attento e motivato, dove ammirare, diciamo così, il deposito culturale della corruzione. Far vedere cosa i corrotti sono riusciti a chiedere per sé e grazie ad essi (bisogna sempre ringraziarli) quale emozione il Paese riuscirebbe a donare a tutti noi. Il problema è che le nostre carceri non paiono ospitare corrotti e che i processi alla classe dirigente, come giustamente si dispera il premier Matteo Renzi, languono nei corridoi delle Procure. E poi: cosa potremmo o dovremmo ammirare? Il cesso di Mario Chiesa, l’antesignano di Mani Pulite? Certo, a pensarci, quel water, dentro cui tentò di disperdere i soldi inguattati, avrebbe un suo senso. Frustrante però. Buttare i soldi al cesso è la metafora dello spreco. E invece il corrotto non spreca, raccoglie.
TOLTI DI MEZZO i conti correnti, beni troppo immateriali, potremmo, dovremmo accontentarci allora del pouf di Duilio Poggiolini, il famoso Re Mida della farmaceutica di Stato, a cui furono sequestrati nella lunghissima maratona della polizia giudiziaria durata dodici ore, lingotti, dipinti, soldi, gioielli e i relativi scrigni, tra cui il magnifico pouf. Il pouf esposto sarebbe prova comunque tangibile di un ingegno vivo. Per restare in tema, Giancarlo Galan, l’ex Doge del Veneto a cui ieri, purtroppo, la Camera ha inflitto la decadenza da deputato in seguito alle vicissitudini giudiziarie, aveva fatto smontare finanche dei rubinetti del bagno la sua villona prima di consegnarla allo Stato.
I rubinetti di Galan, seppure non scrigni d’arte, potrebbero giocare un ruolo decisivo lungo la via della metafora: aprire il rubinetto sarebbe come leggere nel portafogli e magari andare, almeno con la mente, ai conti di Franco Fiorito, l’ex consigliere del Lazio, che aveva acceso conti correnti dappertutto e dentro i quali infilava soldi non suoi. E acquistato ovunque case e anche belle auto.
MA COSA si potrebbe esporre di simbolico per ricordare degnamente l’era del regionalismo in Italia? Forse un bel piatto di tagliatelle. Le tagliatelle di Pasqualino al Colosseo, il luogo in cui Fiorito chiamava al convivio, al piacere del palato e, insomma, al teatro della vita.
Da: Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2016303