DE LUCA, INSOSTENIBILE ARROGANZA DEL POTERE

Dov’è il lanciafiamme che deve ripulire il Pd dallo sporco e dagli inetti? La foto che ieri raffigurava Matteo Renzi tra le ecoballe – la vergognosa filiera di immondizia che in Campania si è costruita ed ha avvelenato per via della disgrazia di una politica inetta – insieme a Vincenzo De Luca, il governatore che libererà la Terra dei fuochi dalla vergogna, sarebbe perfetto allo scopo. Il governo, questo è un fatto positivo e bisogna darne atto, ha impegnato circa 600 milioni di euro per bonificare i territori inquinati e trasferire in inceneritori o discariche autorizzate, la montagna di sudiciume. Avendolo a fianco, Renzi avrebbe però fatto bene a chiedere a De Luca le ragioni per cui la Campania non ha il secondo inceneritore dopo quello di Acerra, che si sarebbe dovuto realizzare proprio a Salerno, e che avrebbe permesso di bruciare in loco una gran quantità di ecoballe. Come mai De Luca, appena gli fu revocata la nomina dal governo Berlusconi di commissario ad acta per la costruzione dell’impianto, cambiò repentinamente la destinazione d’uso del terreno già individuato per la costruzione, contribuendo così alla melina successiva (in cui naturalmente furono coinvolti e attivi i rappresentanti del centrodestra) che ha poi prodotto il nulla? L’inceneritore sarebbe costato 300 milioni di euro, meno della metà di questa opera di pulizia straordinaria. Se Matteo non lo sa, glielo diciamo noi: a Salerno tutto ciò che non viene consegnato al dominio totale del potere deluchiano equivale a un’opa ostile, un’azione di sabotaggio da respingere con tutti i mezzi. Renzi lo sa? E sa che il governatore ha appena nominato suo figlio assessore al bilancio e allo sviluppo del comune di Salerno, senza che una voce emettesse anche un solo sibilo di imbarazzo? E sa che l’altro figlio, Piero, è in attesa di incarico? È vero, resta ancora da sistemare il cane. Dov’è il lanciafiamme?

Da: Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2016

Figli d’arte e signori delle tessere. Il Sud è tutto una Grande Famiglia

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Come piloni di cemento armato, tutto si tiene se reggono loro. Altrimenti, pouf, la casa va in rovina. Nessuno di voi conosce Raffaele Topo, detto Lello, da Villaricca? E per caso, vi è noto, Mario Casillo, nato a Boscoreale ma possidente in quel di Marigliano? Lello e Mario sono macchine di voti, facitori di tessere, raccoglitori di municipalizzate. Hanno cinto in un abbraccio vittorioso Vincenzo De Luca e lo hanno spinto sul trono di Campania. La catena gira, l’acqua scorre e arriva ai piedi di Matteo Renzi, l’ereditiere.

I voti si pesano e si contano, ma non hanno odore e sapore. E il Sud promette fortune a basso rischio. La vicenda di Stefano Graziano, il consigliere regionale casertano appena finito sotto inchiesta per aver favorito il clan dei casalesi, è il dazio da pagare all’imprevisto. L’indagine, il carcere, i guai giudiziari sono malattie professionali, rischi connessi all’attività. Chi non risica…

TORNIAMO al signor Topo e a Napoli. Lello Topo era il factotum di don Antonio Gava, il boss, il re della Democrazia Cristiana, il generatore di consensi e negoziati. Lello ha la sua scuola nel sangue e una capacità di mettere a profitto gli anni trascorsi insieme al caro leader che è servita quando ha dovuto scegliere con chi accasarsi. È l’uomo forte del Pd, uomo forte di Napoli e della Regione, quindicimila preferenze vista mare. È naturalmente presidente della commissione Sanità. A Napoli c’è Mario Casillo, un altro trasformer di grido, l’invisibile che registra i passi altrui e li decodifica, gestisce le acquisizioni politiche, assicura il governatore dai rischi delle urne. Diciottomila voti, ecco il risultato. Il consigliere Casillo è un’autorità.

Figlio d’arte, come tanti. Perché nel Mezzogiorno il potere si conserva e si tramanda per famiglie che a volte, come accade nel piccolo Molise, socializzano gli utili e producono economie di scala. A Campobasso il presidente si chiama Paolo Frattura, figlio di Fernando, ex deputato. Paolo era con Forza Italia, ma è stato eletto con il Pd. E ha trovato un gattone, così lo chiamano a Termoli, ad accompagnarlo nella sua corsa. Remo Di Giandomenico, già sindaco e già deputato del centrodestra, il gattone appunto, ha scelto l’amico del cuore quando ha dovuto votare per la Regione. E amico è anche Aldo Patriciello, imprenditore della salute e di altro, europarlamentare con Forza Italia. Tre famiglie un nome solo. Frattura incassa e provvede al bonifico: chi guadagna è sempre Matteo Renzi.Continue reading

Radical chic, o l’arte di usare parole a caso

tom-wolfeDev’essere opera di un diavoletto che s’intromette tra Matteo Renzi e il vocabolario e gli infila a sproposito una parolina, un concetto, un’idea. Ieri per esempio il premier, intervistato dalla Stampa, stava entusiasmandosi per il film di Checco Zalone. Anzi, più ancora del film, per Checco. Ha detto che gli è piaciuto moltissimo, e si è divertito un mondo e ha iniziato a ridere dall’inizio e ha smesso alla fine della proiezione. Ed è andato al cinema (a Courmayeur) con i suoi ragazzi che si sono divertiti moltissimo e non hanno smesso di ridere. Come lui hanno iniziato a sganasciarsi appena il film ha avuto inizio e hanno smesso quando le luci della sala si sono riaccese. Tutto a un tratto il diavoletto, per fargli dispetto, gli ha fatto dire: “E i professionisti del radical chic che ora lo osannano, dopo averlo ignorato e detestato, mi fanno soltanto sorridere”.

ORA, SE C’È un punto fermo di tutta la brillantissima e milionaria narrazione comica dell’Italia e degli italiani da parte di Checco Zalone, è che lui ha scelto (indovinando tutto) di iniziare la mega promozione del proprio film con una osannata incursione da Fabio Fazio, padrone di casa della trasmissione televisiva considerata dai suoi detrattori nient’altro che il miglior ritrovo dei radical chic. Non Mediaset né Maria De Filippi. L’italiano medio di Zalone è stato presentato nel salotto di quelli che, siamo sicuri che a Renzi questa locuzione piacerà, sono accusati di fare “i comunisti col cachemire”. Lui, o meglio, il diavoletto che si prende beffa di lui non gli dirà mai che quella locuzione è un parto della destra populista, un’espression e per inchiodare al muro l’alta borghesia che per finta guarda a sinistra e sbeffeggiarla al modo in cui Tom Wolfe descrisse il party dell’high society newyorke se a favore delle rivoluzionarie pantere nere. Tra l’altro Renzi, se avesse riflettuto, avrebbe ricordato che alcuni giorni dopo proprio lui sarebbe stato ritratto insieme all’uomo del cachemire per eccellenza, manager milionario e simpatizzante del suo governo che almeno di nome conserva ancora la dicitura “sinistra”. Era il premier o non era lui ieri alla Borsa di Milano? E aveva accanto Marchionne e il suo golf, giusto? Le parole hanno un senso, possono essere pietre o anche buche.

RENZI, SUO MALGRADO, ricorda il favoloso Berlusconi degli anni ruggenti, lo statista che distribuiva il libro nero del comunismo e avvertiva la folla acclamante, senza essere colpito da alcun senso del ridicolo, di fare attenzione agli “agit prop”, uomini cattivi che non solo e non tanto mangiavano i bambini ma si intrufolavano di soppiatto nel seggi elettorali, coartando con pozioni malefiche la volontà di singoli cittadini indifesi oppure, tramando nell’ombra, imbucavano schede farlocche inviate dalla Russia ancora sovietizzante e mutavano il conto democratico, la lista degli eletti e dei bocciati. Delle ossessioni di Berlusconi si sa tutto, sono invece meno gli studi sulla psiche renziana e l’utilizzo interpretativo delle sue parole. Butta alla rinfusa. Vuol dire ipocrita o falso e lancia con la fionda un radical chic. Gli viene bene e fa, secondo lui, molta rottamazione. È come una molla, un impulso che si ribella a ogni controllo e si spande per l’aria. Non fruga nel vocabolario ma prende a peso o a pretesto. Zitto e gufo!

Da: Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2016

 

PSYCHO MATTEO CHE NEGA SE STESSO

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Matteo Renzi sta conoscendo il momento più duro della sua pur spavalda conduzione degli italiani verso il sorriso. Per affrontare questa imprevista stagnazione della felicità, il premier sferra una controfensiva mediatica sdoppiandosi. Diviene l’uno e il suo opposto, trasformandosi così da premier in psycho-premier.

Sono le meraviglie cavernose della psiche, l’attitudine alla rimozione come difesa ultima dell’identità ad essere utilizzate nella battaglia finale contro i gufi. Alla Leopolda, per esempio, elimina ogni traccia di Pd, consentendosi di non esserne segretario per tre giorni. Si autosospende, anzi si autorimuove, e chiama a raccolta la propria corrente annunciando: “Chi parla di correnti resti a casa”. Lo psycho-premier trasforma tutti i renziani in altrettanti psycho-renziani che lavorano sui due campi della mente: l’esserci e il non esserci. Erano alla Leopolda, che è una corrente, ma contro la Leopolda, essendo contro le correnti. Erano del Pd, tutti tutti del Pd, ma anche un po’ contro il Pd. Cosicché quando Renzi estende alla Boschi l’ombrello interdittivo alla rivalsa gufesca, annulla d’imperio il contestato potenziale conflitto di interessi della ministra attraverso un processo di sostituzione figurativa. Tutti avevamo in mente il volto del papà di Maria Elena come causa dello scandalo. Lui, cioè Matteo, per spiazzarci, parla invece del proprio papà: “Lui mi dice che dovremmo passare al contrattacco”. Con la sostituzione dei papà avviene anche una sostituzione del conflitto di interessi – qui è il papà di Renzi non della Boschi a fomentare il contrattacco e dunque a far confliggere il figliolo con i propri doveri – ed è un modo per far sbandare l’opposizione e obbligarla al dubbio: chi sfiduciamo? Lei o lui? Lo psycho-premier avanza nella sua performance: “Il consiglio di amministrazione di cui fa parte il padre della Boschi è stato destituito dal nostro governo”, dice. Quindi il governo è stato severo contro gli autori delle malefatte bancarie. Ma la Boschi, questa volta confliggendo direttamente col premier, aveva appena assicurato: “Mio padre è una persona perbene”. E la domanda dunque è: il suo papà è sempre perbene o dopo le parole del premier è un tantino degradato verso il male? Formidabile però la risposta che il premier prepara per rintuzzare i veleni di Enrico Letta che paventa due pesi e due misure di Renzi. Quand’era all’opposizione chiedeva le dimissioni di un ministro ogni battibaleno. Adesso che guida il governo si rammarica se l’opposizione fa altrettanto. “Ci sono partiti che si sono fatti le banche”, esplode Matteo. A chi si riferisce? Tolto di mezzo Berlusconi, che aveva una banca (socio di Mediolanum) prima di fare il premier e prima di fondare Forza Italia, rimangono la Lega nord e i Ds, cioè i soci di maggioranza del Pd. Proprio il suo partito!

Diavolo di un Renzi, anche questa volta ha rimosso il segretario che è in lui e così Piero Fassino, che da ultimo segretario Ds disse “Abbiamo una banca!” e oggi è il sindaco di Torino, si è trasformato da renziano in psycho-renziano. È suo amico ma anche suo nemico. È con lui ma anche contro di lui. Si conoscono e non si conoscono. E Renzi, capolavoro!, è riuscito a perforare anche la memoria del ministro Giuliano Poletti, quello del Jobs Act, che viene dalle Coop, mondo nel quale Unipol, la protagonista di passate ma infruttuose acquisizioni bancarie, gravita stabilmente. Poletti? Poletti chi?

Da: Il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2015

Rosario Crocetta: “Matteo ci deve un miliardo, ma io non faccio la questua”

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Le hanno appena staccato i computer.

Roba da pazzi. Ma li denunciamo per interruzione di pubblico servizio. Un’azienda privata che si permette di osare tanto contro un popolo è da portare davanti al giudice.

E il pilone della Palermo-Sciacca si è appena inclinato. Altra strada a rotoli.

Mi pare abbiano già risolto.

E Messina senz’acqua.

Vuole farmi la lista dei guai? Pensa di addebitare a Rosario Crocetta i mali della Sicilia?

Puntavo sulla sua proverbiale schiettezza per indagare alla radice la questione siciliana.

Non sono il mago Zurlì.

È la giornata peggiore di tutte: lei a Palazzo Chigi col cappello in mano. Se Renzi non sgancia un po’ di soldi, è rovinato.

La Sicilia non va col cappello in mano e Crocetta non piagnucola: esige il rispetto dei patti. Quei soldi, più di un miliardo, lo Stato ce li deve.

Intanto in cassa non c’è più un euro nemmeno bucato.

Vero. Ma non perché abbia sprecato. Ho dovuto finanziare in due anni il programma delle opere stabilite dai fondi europei che marcivano. Abbiamo anticipato soldi chiudendo appalti aperti da sette anni. È una medaglia.

Resta sempre che non ha soldi nemmeno per il caffè.Continue reading

Giovanni Sartori: “Obama è un incapace, il Papa un furbo e Renzi un furbetto”

Ho solo quattro peli sulla lingua. Se lei riuscirà a schivarli ci divertiremo”. Giovanni Sartori ha superato una guerra mondiale, il ’68 e tre polmoniti virali. È il più brillante politologo italiano, il più attrezzato nell’uso della parola come falce espressiva, il più disinibito nel piacere con cui aggroviglia e riduce a cenere i protagonisti del nostro tempo, al di qua e al di là delle Ande. L’incontro domenicale è nella sua casa romana: “Come mi trova? Un po’rincoglionito, vero? Guardi il bastone, purtroppo ora mi serve. Guardi il medaglione messicano che mi hanno affibbiato. Con i messicani vado proprio d’accordo. E guardi questo dono del principe delle Asturie, non male eh?”.

sartoriLa trovo in forma.

Le polmoniti, tre di seguito, mi stavano accoppando e lei mi trova in forma. Bel pezzo di bugiardo.

Le rispondo con una sua fantastica espressione: siamo dei bipedi implumi. Adulatori impenitenti.

L’ho usata in questo ultimo libro. Gli uomini sono animali strani. Due piedi e senza piume. Questo libro avrei voluto titolarlo La corsa verso lo sfascio. Poi mi hanno convinto a cambiarlo (La corsa verso il nulla. Dieci lezioni sulla nostra civiltà in pericolo, Mondadori). L’editore mi aveva invitato a non pubblicarlo d’estate. Dice che in estate gli italiani leggono solo cose leggere. Gli ho risposto che allora era giunto il momento per me di provare il brivido di restare invenduto.

Siamo ignoranti.

Spesso ignorantissimi. Non è un’esclusiva italiana, però. Prenda Obama. Frequentava alla Columbia il corso di laurea dove insegnavo. Ma non l’ho mai visto alle mie lezioni. Le sembra uno capace?

Non conosceva il professor Sartori. Avrà pensato di aggirare i corsi apparentemente infruttuosi.

Ma io avevo due corsi importantissimi per lui! Uno sulla teoria della democrazia, l’altro su metodo, logica e linguaggio in politica. Tu vuoi fare politica e non segui questi corsi? Gli interessava solo di essere eletto. Personaggio da quattro soldi.Continue reading

Il premier dell’ignavia e la ricerca del consenso

Ora siamo al detersivo acquistato con i soldi pubblici, alla tv trafugata, ai biglietti gratta & vinci per tentare la fortuna, ammesso che sedere nel consiglio regionale per quella gente non sia di per sé già una enorme ed esorbitante fortuna.

Tutto è dannatamente uguale a sempre, anzi questo finale di stagione di Rimborsopoli in versione calabrese, il trafugamento degli spiccioli dopo aver svuotato ogni cassaforte, ci dice due cose. La prima è che le Regioni sono divenute l’ambito ideale di ogni furfanteria, anzi la scuola di formazione per classi politiche inette e incompetenti. La seconda è che questa classe politica è irredimibile e il partito che nel Parlamento detiene la maggioranza dei consensi, cioè il Pd, è divenuto un canale di smistamento, un ponte verso la liceità dell’arraffa arraffa.

Cosa ne sa Renzi del Pd calabrese? Nulla naturalmente. Lui non c’entra, non sa. E ora che sa fa come sempre ha fatto: una bella dichiarazione pubblica, fuori i ladri. Non sapeva di Roma, non sapeva del Mose, non sapeva dei traffici milionari sull’Expo.

A ben vedere Matteo Renzi è il premier dell’ignavia. Non sapeva come si formavano le liste dei candidati, non conosceva il calibro dei personaggi coinvolti in giunta, non era interessato a scoprire il traffico delle clientele. A lui più della buona politica interessa il consenso e in quanto a voti anche in Calabria, nella tornata elettorale delle Europee che ora sembra lontanissima, aveva mietuto successi clamorosi.

Dire che il presidente della giunta Mario Oliverio dovrebbe immediatamente dimettersi sembra anche poco. E aggiungere che l’Ncd è divenuto oramai il recapito usuale degli avvisi di garanzia e degli ordini di arresto è ancora un’ovvietà.

Tutto è così perfettamente indecente. Dunque normale.

da: Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2015