Il nostro martire è l’agnello, lui il capro espiatorio, l’animale che col suo sangue leva a noi tutti i peccati. Martirio, sacrificio, peccato e sangue sono però parole che oggi suonano così prossime alla nostra vita, così temibili per la nostra libertà. Nuove, minacciose e fanatiche.
Professor Marino Niola, lei studia i riti dell’uomo. L’agnello per noi è divenuto solo parte di un menu.
Cosciotto o coratella? La secolarizzazione tra le sue innegabili virtù ha purtroppo il vizio di confinarci nel vuoto della memoria. Domani troveremo a tavola l’agnello al quale daremo il valore più immediato e modesto: gustoso cibo per il nostro palato, piacere per il nostro corpo, appuntamento conviviale genericamente festoso.
Questa è la settimana del sacrificio.
Del sacrificio animale. Altrove gli sgozzamenti – di pecore o montoni o agnelli – e il sangue sono manifesti, visibili in una relazione aperta, diretta, in un rapporto contiguo e permanente col sangue e con la morte. Ma la nostra cultura, anche quando si tratta di animali, rifiuta di vedere la morte, la esorcizza, la disconosce, la rende astratta. E quando proprio non può farne a meno, perché quell’ora arriva, tenta di renderla incruenta, la trasforma in dolce. L’uccisione, anche dell’agnello, avviene al buio, al chiuso, lontano dai nostri occhi. E suonerebbe assai disdicevole se potesse accadere il contrario. Il nostro rifiuto è assoluto e non esiste categoria che relativizzi la morte. Non assistiamo al sangue versato. Ci inorridisce se capita a un nostro simile, ci fa star male se accade per un animale.Continue reading