La storia sentimentale tra l’allevatore Antonio Palmieri e le sue bufale ha inizio qualche decennio fa quando gli toccano, in eredità, duecento ettari di terreno acquitrinoso nella piana del Sele sui quali si adagiano questi bestioni neri, parecchio selvatici e parecchio puzzolenti. Dagli occhi pieni di sangue, scriveva Goethe. “Pensai invece che sarebbe stato un ottimo affare voler bene alle bufale”. Palmieri voleva fare la migliore mozzarella col latte della sua mandria e trovò la radice quadrata della sua fortuna: “Il loro benessere garantisce la qualità del latte e, per proprietà transitiva, la mia mozzarella… Capii presto che le bufale non amano lo sporco e nella palude ci sguazzano se non ne possono fare a meno. Sono invece piuttosto educate, democratiche nella gestione della vita di mandria, delicate nell’utilizzo degli attrezzi che le fanno star bene. Non legano con chi è scorbutico: i mungitori per esempio hanno spesso fretta e le indispongono. L’uomo sa essere cattivo e quindi loro restituiscono pan per focaccia”.
Da qui, con un occhio al sentimento e l’altro al portafoglio, la nascita del primo gruppo di bufale autogestite.
Fanno tutto da sole. Si lavano, si spazzolano, si mungono, si dividono i pasti. Entrano ed escono (da sole) dall’infermeria quando qualcosa non va e, in caso di gravidanza, godono di un permesso sindacale di tre mesi di astensione dal lavoro prima del parto: al pascolo allo stato brado, su e giù senza far nulla fino all’arrivo della figliolanza.
Il computer è stato l’amico di Palmieri e un sistema robotizzato lo strumento col quale fa girare a meraviglia la società animale, distesa proprio dietro i Templi di Paestum. “Il robot me l’hanno venduto gli svedesi, ma che fatica! Dicevano che le bufale erano meno intelligenti delle vacche e il loro sistema, adatto alla gestione della sola comunità di vacche, avrebbe fallito. Io a ripetergli: “La bufala è molto intelligente, e non c’è paragone tra lei e una mucca. Ma scherziamo?”.Continue reading