QUESTO EDIFICIO ha le sbarre, come tutte le carceri del mondo, e ha i letti a castello, le cellette strette, il muro di cinta, le garritte, le telecamere, i parenti in attesa, le mamme nervose e i bambini stupiti del destino dei loro papà nella saletta dei colloqui protetti. “Ti amo papà” gli ha scritto uno di loro su un foglio di quaderno da terza elementare. Quel “Ti amo” è orgogliosamente appeso al muro, e le mura sono finalmente colorate, aperte alla luce dei sogni, al giallo sgargiante di una stella. E ogni corridoio, ogni parete, ogni centimetro quadrato di questo territorio nemico è stato colorato. “Ho ospite un pittore inesauribile, si chiama Saverio Barone. Allora l’ho convocato e gli ho detto: libera le tue energie, dipingi quel che vuoi, dove vuoi”. Uscito dal colloquio col direttore del carcere Massimiliano Forgione, Saverio ha destinato alla sua passione ogni minuto del proprio tempo e iniziato a intonare, come faceva all’Accademia delle Belle Arti, gialli e blu e verdi spaziali, strisce elettriche e ansiogene insieme a tonalità più dismesse o lievi. Saverio ha forzato la mano al suo desiderio di libertà e ha chiuso gli occhi: c’è il suo pennello ovunque, tra le corsie lunghe che dividono le celle e i corridoi brevi degli uffici amministrativi. Ogni grigio è stato ucciso: viva il rosso, l’ocra, il bianco, l’azzurro. Viva Pluto e Paperino, viva noi. E poi, ironizzando sul destino di ciascuno, una monumentale banda Bassotti apre la strada alla prima sezione, l’ultima cena scorre mentre ci si dirige alla mensa. Lo skyline di New York e un grande ritratto di Ray Charles fanno avanzare verso la stanza della musica: chi ha voglia di suonare e scaricare la tensione può accomodarsi: batteria, piano, chitarra. C’è tutto.