QUI LA MORTE e la vita si incontrano. Chi spinge e chi resiste come si fosse in quelle file al botteghino per guadagnarsi il biglietto di uno spettacolo imperdibile. Esiste l’enormità della vita, l’impellenza che essa rimanga tale e che il corpo riconquisti la luce, gli occhi si riaprano, e la bocca, le mani, le gambe ritornino nella loro condizione originaria. Ora sono manichini sdraiati, denudati, immobili, bucati da aghi, tracheotomizzati, tenuti al caldo o al freddo da elettrodi, coperti per compassione da un telo verde. Incoscienti, incapaci, quasi perduti.
Guarire con la speranza
Nella sala di terapia intensiva del San Giovanni Bosco, ospedale torinese, la giornata segue i beep delle macchine, e le macchine aggiornano i monitor, i monitor registrano i battiti, assistono il ritmo ossessivo della lotta finale. Si può essere felici in questa valle di lacrime, in questo deposito di dolore, in questo teatro di piaghe infinite, di esami ricorrenti e quasi sempre inconcludenti? Sergio Livigni ha il compito di dare speranza a chi non ne ha più, e offrire una ragione alla crudeltà del destino, un motivo alla scelta di resistere, una speranza alla disperazione. Da medico dirigente, è lui il primario del reparto, ha scelto di trasformarsi in motivatore, in una macchina della fiducia. Ed è straordinario quel che succede in questa piccola fabbrica della vita. Perché lo Stato arrivava a pagare anche 2.500 euro al giorno (ora meno) per assistere chi lotta, ma non riesce a dare sorrisi o lacrime a quelli che accompagna. Non riesce a essere umano. Livigni invece ricerca oltre la terapia l’umanità, un sorriso, studia il benessere, teorizza la cura del conforto, la mano nella mano, l’amore come riabilitazione.
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