Governo, se il M5s diventa sabbia e la Lega è il mattone

La sabbia e il mattone. È la metafora, secondo me felice, di chi intendeva far capire bene la differenza tra Cinquestelle e Lega. Soffi da un lato e la sabbia muove verso quel lato. Soffi dall’altro e la sabbia si sposta all’opposto. È il mattone che resta fermo.

Inaugurare la stagione del cambiamento senza curarsi di quale direzione dovesse prendere, è stato un modo di far prevalere la suggestione alla ragione, la speranza alla verità. Il cambiamento non è mai incolore e non è inodore. Se aggiungi lo sciroppo di amarena all’acqua, essa diverrà rossa: se vuoi la mandorla, sarà bianco latte.

E adesso cosa sono i Cinquestelle? Amarena o latte di mandorla? Qual è il principio che li guida? Scegliere un capro espiatorio ed assecondare Salvini nella ricerca ossessiva di un solo nemico cui far fronte, il migrante, cioè il povero, colui che non ha diritti? Oppure rappresentare proprio i senza diritti, naturalmente i tanti italiani che l’hanno perso, coloro che si trovano senza lavoro e senza futuro?

Scegliere la legalità come requisito essenziale al punto di farlo divenire perno insindacabile di ogni scelta successiva; oppure valutare secondo discrezione e opportunità politica? Perché nel primo caso l’alleato Matteo Salvini sarebbe stato già giudicato ed espulso dal cerchio delle amicizie grilline. Nel secondo caso no. Se il ministro dell’Interno, il ministro dell’Ordine, viene indagato perarresto illegale, che si fa? Si fa finta di non aver capito?

Scegliere di rappresentare i senza diritti, coloro che sono stati esclusi dal circuito del potere, in quale modo è compatibile con gli interessi economici anche cospicui che la Lega ha tutelato e continua a tutelare nell’area più ricca e popolata del Paese, cioè il Nord?

Avere la maggioranza dei consensi al Sud e poi ascoltare la proposta della Lega di ripopolarlo, come si fa nelle campagne venatorie, grazie a una tax free, un territorio in cui il vantaggio fiscale sia l’unica molla che lo fa vivere e non la lotta alla corruzione e alla delinquenza che lo dissangua, non alla difesa dei talenti che vengono espulsi da una classe dirigente ottusa, non alla bellezza dei suoi luoghi, alla forza millenaria della sua cultura, ha qualcosa di razionale, di praticabile, di coerente?

Per cambiare bisogna fare scelte. E le scelte hanno un costo anche politico. Se voglio dare un po’ di più a chi ha meno, devo togliere un po’ a chi ha di più. Se voglio combattere la mala politica non devo fare accasare gente che ha praticato la malapolitica, come sta succedendo al Sud con la Lega, nuovo approdo per una moltitudine di transfughi.

Se voglio che la Costituzione domini le mie gesta non posso accettare che dei maramaldi, come è accaduto sulla spiaggia di Castellaneta, inneggiando al ministro dell’ordine pubblico, stabiliscano da soli il nuovo ordine. E lo illustrino con le bandiere al vento. Questo si chiama fascismo, semplicemente.

I Cinquestelle hanno finora goduto di un vantaggio competitivo enorme: la crisi della reputazione dei partiti della sinistra e di quelli della destra storica. Un vantaggio che li ha premiati oltre ogni merito. Ma la sabbia, senza il cemento di una idea, la forza di un progetto, è destinata a volare via alla prima folata di vento.

L’autunno è vicino.

da: ilfattoquotidiano.it

Il leghista vuole menare i magistrati? Usi le mani per cercare i milioni della Lega

“E ti vengo a cercare” è una delle più belle canzoni di Franco Battiato. Parla dell’amore irrefrenabile che ruba l’istante e costringe a seguire l’amata, anzi inseguirla, ovunque si trovi.

Nella disperazione di questi giorni tristi, un deputato italiano, avete capito bene: un rappresentante delle Istituzioni, un legislatore, avverte la magistratura che, nel caso si eserciti nei confronti di Matteo Salvini l’azione penale per l’enorme mole di violazioni di legge che il ministro dell’ordine sta infrangendo, divenendo così il ministro del disordine e dell’illegalità, bene, in questo caso “vi veniamo a prendere sotto casa”.

Ha scritto proprio così Giuseppe Bellachioma, deputato leghista e segretario della Lega in Abruzzo.

L’orgoglioso fascista abruzzese non vede l’ora di menare le mani, dare manganellate alla magistratura e ricondurla al rispetto e alla soggezione, giacché ha sottratto la sua testa, la sua mente, il suo cervello alla ragione, al contegno, al diritto. Bellachioma (nomen omen!) esibisce le mani perché gli pare che essere peggio di quel che si poteva pensare oggi in Italia riscuote successo.

Attendiamo adesso che qualche suo collega, perché al fondo non c’è mai fondo, lanci l’idea di promuovere per esempio una gara di rutti e di peti, in segno di solidarietà per il Capitano (così chiamano Salvini) che, pur di liberare l’Italia dallo straniero mette a repentaglio la sua libertà (sic!).

Visto come stanno le cose ci sentiamo di avanzare un invito un all’onorevole Bellachioma: trovandosi con le mani impegnate nella ricerca, prima di passare sotto casa dai magistrati, riuscirebbe a fare un giretto sotto via Bellerio, la sede di quella che fu la meravigliosa della Lega Nord, e iniziare intanto a cercare i 49 milioni di euro che – incredibile a dirsi – sono stati sgrignaffati allo Stato da qualche leghista? Salvini, che pure era nei pressi, purtroppo non sa e non ricorda.
Bellachioma, nomen omen, faccia venire un’idea alle sue mani e le metta a scavare.

da: ilfattoquotidiano.it

Se il Pd diventa il partito del torto

 

Pdt, partito del torto. Esiste un partito del torto e la certezza altrui è che abbia torto persino quando dimostra la sua ragione. Il partito del torto è oggi interpretato, scritto e proposto dal Pd il quale vive una stagione buia che va persino oltre i suoi demeriti. E’ la stagione della sinistra che non trova più idee, non ha parole e soprattutto gli manca la reputazione per avanzare un progetto. Non ha credito presso l’opinione pubblica. E’ la medesima crisi reputazionale di Autostrade per l’Italia che porterà il governo, al di là dell’esito giudiziario della drammatica vicenda, a insistere per la revoca della concessione e anzi a fare di questo atto un cavallo di battaglia.

Come sia stato possibile per il Pd non ritenere che il principio di realtà – quel ponte di Genova è caduto, e quel ponte era assoggettato alla cura e alla manutenzione di un soggetto che aveva sottoscritto un obbligo a fronte di un corrispettivo (il pedaggio) – dovesse avere la meglio su ogni altra considerazione è un mistero. In un dramma di tale portata l’azione di revoca appare adeguata, misurata, in una parola: giusta. E come sia stato possibile che per qualche settimana il Pd, un partito che si rifà agli ideali della sinistra, non abbia ritenuto giusto, corretto, adeguato il bisogno di rafforzare i diritti dei lavoratori, resi così enormemente precari da una corsa al ribasso che ha mortificato oltre ogni ragionevole misura la dignità di chi lavora, è un altro sacro mistero.

Cosicché tutte le azioni sguaiate, le parole fuori misura, gli atteggiamenti e le posture in alcuni casi nettamente fascistoidi di cui hanno dato prova i rappresentanti del governo, con la Lega intenta a rendere l’immigrazione il capro espiatorio di ogni devianza, promuovendo iniziative persino disumane, perde purtroppo di peso e vaga sullo sfondo.

Il primo piano della scena è ciò che ieri abbiamo visto ai funerali di Genova: la folla che chiedeva a Salvini e a Di Maio di tener duro. “Tenete duro”, dicevano. Cioè: non vi piegate ai compromessi, non aderite a negoziati in cui chi ha responsabilità trova il modo per sfuggire ad essa. Soprattutto: fate in modo che per una volta i potenti paghino per le loro colpe.

E’ una domanda populista? E’ una richiesta esagerata o misurata? E’ vero o falso che il capitalismo di relazione in Italia ha sempre ottenuto una corsia preferenziale, e sussidi, e contratti e benefit che l’hanno messo al riparo da qualunque accidente? E dentro questa verità il Partito democratico, assoggettato in questo caso a Forza Italia, la cui leadership soffre della medesima crisi di reputazione, non muove un muscolo.

E anche quando segnala che le responsabilità di governo esigono uno stile più sobrio, che Salvini e Di Maio non possono rendere il ponte crollato come sfondo per il loro teatro propagandistico, poi perde la misura e, anziché riflettere su quel che bisogna dire ad Autostrade per l’Italia, se convenire o meno con il proposito della revoca, fissa l’istantanea di un selfie – quello di Salvini con una signora ai funerali – che appare un atto vergognoso e barbarico.

Si deve alla ragione e al contegno di una ex deputata del Pd, Cristiana Alicata, che “sommessamente” consiglia al suo partito di riguardarsi tutta la scena e capire che in quel selfie Salvini è caduto senza colpe, per avere di nuovo il senso della estraneità del Pd al corpo sociale più numeroso, al cosiddetto popolo.

Però avere un partito perennemente imputato di essere nel torto, nuoce ai tanti suoi militanti e dirigenti che hanno passione e mostrano dedizione verso il bene comune. Nuoce persino al governo che ritiene così di gonfiare ancor di più il petto ed esondare dagli argini del contegno e della misura, giudicando i like su Facebook l’unica controprova attendibile alla sua azione. Avere un partito sistematicamente adagiato nel torto sviluppa una democrazia deviata, promuove una deriva plebiscitaria, assicura a chi ha oggi il potere assurde posizioni di rendita.

Voglio dire che il danno è incalcolabile per tutti, anche per chi è lontano da quel mondo o vi si oppone e l’avversa. Una società per azioni, come una srl, porta i libri in tribunale oppure dichiara estinta la sua missione.

Il Pd dovrebbe seguire l’esempio e capire che la reputazione per riconquistarla ha bisogno di una casa nuova, di dirigenti estranei alla storia recente, di volti inattaccabili e di decisioni anche drammatiche, anche definitive.

da: ilfattoquotidiano.it

Genova, il ponte Morandi e il gioco dell’oca

Prima di abbonarmi a Telepass, ormai molti anni fa, ero un habitué delle file ai caselli. A volte così lunghe che andava via un’ora, altre il tempo di un’intera partita di calcio. L’attesa induceva alla vista: vedere sganciare tanti e tanti quattrini per godere del diritto di passaggio, in alcuni tratti con un costo più elevato del carburante necessario, e vederli in mani private mi ha sempre procurato uno sconforto. Dove ci sono quattrini da guadagnare, lo Stato lascia. Dove ci sono debiti, lo Stato prende. E domandavo con ingenuità: perché succede? Le risposte erano tristemente uguali: lo Stato non ha la capacità, l’efficienza, la duttilità delle imprese private che riescono a fare meglio e con più speditezza dove la mano pubblica si blocca, s’impiccia, si  corrompe e infine si ferma. Le medesime spiegazioni, se ricordate, che sono state alla base di diversi condoni. Lo Stato non riesce quindi… Non riesce a controllare gli evasori quindi condona, non riesce a realizzare celle degne e umane quindi libera anzitempo chi avrebbe da scontare la sua pena. C’erano poi dei settori, come la sanità, in cui l’eccellenza, la media dei luoghi migliori dove farsi curare, era pubblica mentre la precarietà diveniva privata. E cosa succedeva? Che l’industria privata si arricchisse proprio nel settore dove le sue prestazioni erano mediamente peggiori del concorrente pubblico.

Domandavo, che ingenuo: ma se è un affare, e gli ospedali hanno una reputazione maggiore, perché sono rovinati dai debiti? Perché i nosocomi pubblici sono spesso in una condizione vergognosa e quelli privati, più scarsi nelle competenze, lindi e belli?

Avere il coraggio di affrontare, certo con più compiutezza di quanto io non sia in grado, l’elemento psicologico, il difetto di autostima che ci convince che di là ci sono i buoni e di qua i cattivi e nulla può cambiare il corso delle cose, aiuterebbe a sistemare meglio le opinioni e dare un senso alla logica.

Perché nemmeno il più fesso tra di noi, il più sprovveduto, avrebbe mai firmato un contratto, come quello che il governo italiano ha stipulato con Autostrade SpA nel quale si stabilisce che a fronte di gravi e documentate inadempienze del concessionario il concedente è comunque tenuto a corrispondere il valore dei profitti equivalente agli anni residui della concessione.

Chi di noi avrebbe firmato un accordo simile che è un premio all’inefficienza? Nessuno.

Con la nostra tasca mai e poi mai avremmo accettato.

Ora i terribili fatti di Genova dicono che quel patto si è potuto accettare perché non era la nostra tasca in gioco ma quella di tutti.

Ecco, se potessi dare un consiglio, inviterei, come nel gioco dell’oca, a tornare alla casella di partenza: cosa è e come si difende il bene comune, questo sconosciuto.

da: ilfattoquotidiano.it

Lui ministro razzista, lei rifugiata: quando non è solo l’amore ma anche la logica a sconfiggere la xenofobia

Succede in Norvegia. Lui, uomo bianco, panciuto, maturo, abbastanza ricco e molto razzista, si innamora di una giovane dalla pelle color ambra, molto bella, rifugiata per motivi politici. Lui, Per Sandberg, 58 anni, deputato da oltre venti, è anche ministro della Pesca e ha un curriculum xenofobo di tutto rispetto. Lei, Bahareh Letnes, 28 anni, iraniana, dagli occhi verde smeraldo, risponde all’amore imprevisto e improvviso con l’amore.

La coppia che si forma, secondo la considerazione più immediata e anche banale, è figlia del sentimento che vince contro ogni altra ragione.

Non è però l’amore che fa scavalcare le montagne, come a prima vista sembrerebbe, ma il destino dell’uomo. La sua migrazioneda un luogo all’altro della terra ha costruito il mondo. Il viaggio è la sua condizione incoercibile, la misura irrinunciabile, il senso del dire e del pensiero. Senza la migrazione saremmo oggi ancora all’homo erectus. Perciò i razzisti non solo non hanno ragione, ma neppure hanno logica perché non sanno di essere figli di coloro che odiano e non sanno che coloro che odiano hanno costruito il mondo che loro dicono di voler difendere.

Gli usi e i costumi hanno in sé la cifra del divenire. Mutano i gusti, i vestiti, lo scrivere e l’abitare solo perché abbiamo potuto viaggiare, vedere, gustare, capire.

Se i razzisti sapessero, conoscessero, diventerebbero rossi come i pomodori che fanno raccogliere in casa nostra agli schiavi neri. I razzisti, gli schiavisti forse pensano che i pomodori siano il frutto eletto della Capitanata di Foggia. Mica sanno che gli aztechi ce li hanno fatti conoscere, e che se oggi li mangiamo è solo perché tanti e tanti anni fa siamo andati fin laggiù, nell’America centrale, a scoprire, guardare, conquistare. Cioè a migrare.

da: ilfattoquotidiano.it

Siamo uomini o cellulari?

Divenuti trasponders, celle telefoniche vaganti in perenne attesa del segnale, noi uomini abbiamo trasferito al cellulare la nostra memoria, chiedendogli di sistemare quel che adesso non ci viene più facile né possibile: il ricordo. Poi abbiamo scelto di trasferire a lui la nostra vista, i momenti più belli e anche quelli così così, le foto di rito e quelle di lato, lo scatto memorabile e il fotogramma per l’idraulico, la necessità quotidiana e il momento clou. Foto, e poi foto e poi ancora foto e video e time lapse e ogni altra fantasticheria. Infine abbiano donato il nostro cuore. Con whatsapp o messenger innamorarsi è divenuto un po’ più facile, diretto, possibile. E abbastanza alla nostra portata. Possiamo dirci innamorati in un nano secondo. Basta un emoticon (cuore) per comunicare all’altra il nuovo inizio. Due (cuore più cuore trafitto) se siamo già sulla via dell’intramontabile unione. Tre o più (volto con gli occhietti a forma di cuore è particolarmente increscioso ma pure è all’apice della classifica dell’amore) se la coppia è solida come marmo di Carrara.

Io e voi, quasi tutti voi perché le eccezioni sono davvero poche, dobbiamo ammettere che il cellulare è corpo del nostro corpo, elemento indiscutibile non più ornamento. Siamo sempre connessi. E condividiamo tutto. Condividiamo, cioè facciamo rete, ci colleghiamo, facciamo partecipi l’altro della nostra felicità o del nostro dolore, della nostra preoccupazione, della nostra speranza, delle nostre idee, della nostra civiltà, della nostra verza, dei calli ai piedi, del nostro amato parrucchiere, eccetera. Condividiamo la pizza, il bacio, il ballo, la foto sugli scogli, la foto senza scogli, il nostro bimbo che spegne le candeline, il nostro cane che spegne le candeline, il nostro gatto, i nostri nonni, i funerali, i matrimoni, le gite al lago. Condividiamo tutto, e ci siamo capiti. E grazie a internet, che è uno strumento di conoscenza immediato, popolare, orizzontale, istantaneo, possiamo sapere ogni cosa: dal Ku Klux Klan a Geronimo Stilton, da Beethoven alla pasta frolla.

Quello che non mi torna è che, pur condividendo tanto, non siamo coesi, e pur connettendoci di notte e di giorno restiamo sempre più soli. E anche se abbiamo la fortuna della conoscenza gratuita e istantanea, promuoviamo forme di ignoranza collettiva, di analfabetismo funzionale, quando non di vera e propria idiozia. A me sembra, e chiedo scusa se sono di parere opposto al vostro, che anche nel dibattito pubblico ci sia una corsa verso la cretineria, di gruppo o singola. Forse però la risposta che dovremmo darci è più amara ma più vera: il fatto è che siamo più stupidi di quanto riteniamo, e meno talentuosi di quel che supponiamo, e forse anche un tantino più ignoranti di quanto speravamo. Internet ci ha fatto allora questo regalo: tenere lo smartphone sempre acceso, e chiedergli di fare le nostre veci: ricordare al nostro posto, e ricordare quanto più è possibile (memoria illimitata!), indicarci la retta via (con google maps!), l’amore per la vita (cuoricini, uno o un suo multiplo), e infine la convinzione di essere stimabili anche se risultiamo ridicoli.

da: ilfattoquotidiano.it

Lei canta, il padre muore sotto il palco: Martina e quell’ultimo bacio

La storia di Martina Salsedo, livornese, cantante blues, è la storia della vita, il mistero che ci trascina alla felicità o ci restituisce l’infelicità come fosse un servizio promesso, un obbligo da adempiere.

Martina, come racconta oggi il Corriere della Sera, mette la sua voce al servizio dei più grandi bluesmen. Domenica sera invece era tutto suo il concerto, nella sua Livorno, tra i suoi amici. Ad un tratto la platea ha iniziato a urlare, uno spettatore si era sentito male e aveva bisogno di soccorso. Lei ha bloccato i musicisti, ed è corsa a vedere. Si è accorta, benché le luci psichedeliche fossero ancora in funzione e rendessero meno nitidi i volti, i lineamenti, che l’uomo steso a terra, sessantotto anni, era il suo papà. Gli stavano praticando il massaggio cardiaco, e a farlo era una sua amica infermiera, anch’ella presente allo spettacolo.

Martina non sapeva che suo padre era lì, e non poteva immaginare di assistere alla sua morte in diretta. Quando, qualche istante dopo, ha dovuto riaccendere il suo telefonino ha trovato l’sms: “Sono qui che ti ascolto, sei una forza figlia mia. Un bacio”.

Quel bacio è stato l’ultimo suo bacio. Un bacio dato e mai ricevuto.

Dovremmo far fronte all’impellenza della vita, e anche al suo mistero, con più generosità, con più ardore e soprattutto con più necessità. Bisognerebbe far presto per esempio, e più presto che si può, ad amare, e cogliere con tutte le forze la felicità possibile, agognata, persino necessaria. Perché il tempo dell’infelicità è sempre in agguato, non smette mai di sorprenderci.

Dovremmo farci sorprendere dalla gioia, la gioia pura. A volte, chissà perché, resistiamo a questa eventualità, non la riteniamo un’impellenza. E i nostri pensieri si fanno tristi, ritenendo forse che la malinconia, lo scoramento o solo la rabbia per tutto quello che non va si addicano alle nostre giornate spesso piene di noia. Senza sapere che il dolore è lì dove non pensiamo, proprio quando non ci sembra possibile, nel modo che nemmeno immaginiamo.

da: ilfattoquotidiano.it

I libri da leggere in estate e quelli che vanno bene in inverno. I consigli della leghista

Ci sono libri più consoni all’estate. E libri che andrebbero letti d’inverno. Cappuccetto rosso, Geronimo Stilton e altri grandi classici del fumetto, Paperino a Paperopoli, le avventure di Gastone, oppure, per le femminucce, La bella addormentata nel bosco vanno bene ai bambini in gita. Per le ragazze da matrimonio, le nubili attempate, o le single di successo i romanzi sono il meglio per una vacanza da sogno. I maschi, sotto l’ombrellone, potrebbero fantasticare con i libri d’avventura. Secondo Elisa Montemagni, capogruppo della Lega in Toscana, esistono dei libri “più consoni al periodo estivo” a differenza di altri. La leghista ce l’aveva col mio saggio su Salvini (“Il ministro della paura”, Paper First) che oltre ad essere “contro” il suo leader, sarebbe risultato inappropriato presentarlo in una serata estiva e per di più patrocinato da un ente pubblico.

Montemagni, senza alcun dubbio, divora i saggi, e specialmente quelli politici, ma solo nel periodo autunno-inverno. E con lei tutti i dirigenti leghisti. L’idea, ora che ce l’ha spiegata, non risulta affatto peregrina: leggere qualcosa che faccia sorridere o fantasticare o anche appassionare è sempre meglio che incupirsi con la realtà a noi contemporanea specialmente in un periodo in cui il nostro corpo e la nostra mente raggiungono l’agognata libertà dal pensiero. Sono sempre preoccupazioni in meno. Con il corpo in ammollo a mare oppure al pascolo sulle montagne è opportuno, desiderabile, invidiabile un libro di inchiesta? Decisamente no. Ridurrebbe la vacanza a uno strazio e farebbe perdere l’attimo fuggente della felicità.

Chissà se la Montemagni farà carriera nel partito di Salvini. A occhio, direi di sì.

da: ilfattoquotidiano.it

Migranti, meglio morti. Perché solo così ci sembrano umani, proprio come noi

Tre giorni fa furono quattroIeri dodici. E ricordo di altri tre morti per strada, non so bene dove. Io però dico: meglio morti. Se questi migranti muoiono almeno smettono di essere dei fantasmi, dei senza nome, dei corpi abbandonati che si piegano in terra oppure sorreggono col loro corpo una montagna di indumenti. Loro ingobbiti e noi in spiaggia sdraiati a guardarli, a volte persino infastiditi da tutto quel traffico di chincaglierie.

Perciò il ministro dell’Interno ha finanziato l’assunzione temporanea di altri vigili urbani, per far sì che le nostre spiagge siano al sicuro da questi abusivi, per lo più neri.

Meglio morti, dicevo. Sono morti chiusi nei furgoni, serrati nella lamiera come i maiali nei tir. E questo ci fa dispiacere. E proviamo pietà. E diversamente dagli americani – che alcune settimane fa hanno ributtato in mare venti migranti perché a prua e a poppa non c’era una cella frigorifero e dunque, purtroppo, dispiacendosi molto, li hanno dati in pasto ai pesci – noi siamo più sensibili e umani. Capiamo che hanno bisogno anche loro di una bara e persino di un nome, e di un vestito pure, perché un morto nudo non sta bene. Ieri, per dire, un medico dell’ospedale di San Giovanni Rotondo ha chiesto a sua madre di portare un pigiama per uno dei feriti nell’ultimo schianto mortale. E ciò ci commuove.

Meglio morti, sì. Almeno avremo la speranza che il questore di Foggia sarà chiamato da qualcuno a dare conto del fatto che nella sua provincia, ad ore prestabilite, transitano dei furgoni che trasportano uomini come se fossero maiali. Li trasportano dai campi, dove sono impegnati a tre euro l’ora o a cinque euro a cassone a riempire di pomodori la nostra tavola. O di angurie, oppure di fragole e di uva. Li trasportano senza che la polizia stradale se ne accorga, senza che una sirena si allarmi, un vigile alzi la paletta, un carabiniere elevi uno straccio di contravvenzione. I militi sono impegnati altrove.

Se muoiono, e come per fortuna già accade ne muoiono in tanti, anche il ministro dell’Interno conoscerà l’approdo finale della crocevia che in tanti fanno nel Mediterraneo e – chissà – penserà pure lui che meglio morti che vivi. Forse dirà in un tweet: Più morti = meno migranti = meno furti = meno abusi sessuali = meno spaccio = meno droga = meno Islam contaminante. Dal male a volte viene il bene, come si sa.

E se ci sarà chi, riflettendo ad alta voce, spiegherà che i nostri cimiteri sono già al collasso per via dei tanti anziani che ogni anno vi soggiornano, risponderemo che una salma per trasferirla in Africa costerebbe non meno di 10mila euro. Possiamo permetterci di spendere tutti quei soldi, mentre i nostri figli sono disoccupati?

Meglio di no.

Ps: stasera presento il mio libro a Nardò, Lecce. Questa città, bellissima e che amo tanto, una perla preziosa e nascosta del barocco pugliese, ha visto suoi onorevoli concittadini condannati per riduzione in schiavitù. È stata la prima condanna in assoluto pronunciata da un tribunale italiano non dell’Alabama.

da: ilfattoquotidiano.it

Anche il Papa perde consensi. La Chiesa immobile e quel crocifisso nelle mani sbagliate

Non c’è covo di criminale senza che alla parete non appaia un crocifisso, una effige della Madonna, un santino dell’Immacolata, l’ex voto al patrono del paese. Da Totò Riina in giù, i più grandi delinquenti comuni, ancor di più se associati, coniugano la loro vita efferata e crudele col segno della Chiesa, testimone universale di compassione e di pietà. I carabinieri, due giorni fa, sono dovuti intervenire per impedire a un presunto boss della ‘ndrangheta, Giuseppe Accorinti, di portare sulle sue spalle e tra le sue mani, macchiate di delitti gravi già sanzionati dalla giustizia, la Madonna delle Neve a Zungri, in provincia di Vibo Valentia. Una novità quasi assoluta, con il comitato promotore che aveva protestato per questa intrusione e il vescovo di Vibo che ha usato parole chiare contro fatti simili.

Una novità, dicevamo. Perché purtroppo le processioni – benedette dai parroci e salutate dal gregge di Cristo – sono servite a formalizzare la forza del boss, il dominio sul territorio e la sudditanza dei suoi concittadini, tutti naturalmente credenti. Con le forze dell’ordine che spesso assistevano inoperose e distratte a questo ulteriore misfatto civile e religioso. In un libro documentatissimo e spietato nella sua crudezza (I preti e i mafiosi, edito da Baldini&Castoldi) Isaia Sales ha illustrato il legame a volte inscindibile e rivelato le responsabilità storiche della Chiesa che in alcuni casi si è dimostrata indifferente, in altri omissiva, in altri ancora coscientemente collusa. Apriamo una parentesi. Di queste ore il sondaggio sulla popolarità di Papa Francesco, con l’indice sceso di alcuni punti.

Il Papa dei poveri, dei diseredati, il Papa a cui piace parlare degli ultimi, andare fra gli ultimi stenta a farsi riconoscere e a guidare le grandi trasformazioni che auspica nel mondo tra la sua Chiesa. Le masse lo applaudono ma la burocrazia vaticana, a quel che appare, diffida, rallenta, ostruisce e a volte contesta. Dunque il carisma del vicario di Cristo, agli occhi dell’opinione pubblica, si appanna, perde lo splendore di un tempo. Chiusa questa parentesi, rileviamo che tra i paradossi del nostro tempo c’è senza dubbio quello che per noi italiani è il più duro da digerire: vedere esibito il crocifisso per motivi opposti alla sua ragione e al grande mistero della fede. Vederlo innalzato per strumentali e a volte abietti motivi politici o – addirittura – vederlo portato al petto da chi ogni giorno fa sanguinare il petto altrui.

da: ilfattoquotidiano.it