Gli arresti domiciliari ordinati dalla magistratura nei confronti di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, i genitori di Matteo Renzi, con l’accusa di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false, sono molto di più di un fatto privato, e vanno molto oltre la stessa vicenda politica di cui è stato ed è protagonista il figlio. Con Renzi il Partito democratico perde completamente ogni reputazione pubblica e la sinistra smarrisce l’orizzonte e il suo popolo. Cosicchè ogni possibile alternativa è giudicata migliore e più accettabile. Alle politiche i Cinquestelle sbaragliano il campo in ragione del deficit di credibilità del loro avversario. E guadagnano consensi oltre misura e oltre gli stessi meriti. Oggi il governo nato per cambiare è sempre più intonato ai colori leghisti, che in poco tempo hanno scalzato i grillini nell’hit parade del consenso, con una attrazione pericolosa verso un linguaggio estremo e violento ed idee confuse, piani spesso caotici e incerti. L’arresto dei genitori, al di là dell’evoluzione giudiziaria della vicenda, obbliga tutti a riannodare i fili della memoria, a ricordare le ragioni profonde di un dissenso di larga parte dell’elettorato che è poi esondato verso il campo alternativo, l’unico appena praticabile. Il disastro, se vogliamo dire così, è che se la maggioranza è questa, l’opposizione resta quella.
Il suicidio assistito del Sud
Esiste il suicidio assistito. E’ una scelta legittima, a patto che se ne sia consapevoli. Il Sud dell’Italia sta affidando le sue speranze a Matteo Salvini e alla Lega. Le scelte di ciascuno non si giudicano e ci saranno ottime ragioni. Perché altrimenti scegliere massicciamente, come il meridione si prepara a fare, un movimento che negli anni scorsi ha detto del Sud, vado a memoria: “terun de merda” con il capostipite Bossi, “topi da derattizzare” (Calderoli), “colerosi che puzzano più dei calzini” (Salvini) sarebbe da pazzi. Mettiamo dunque che la Lega, cambiando vocabolario, abbia convinto tanti meridionali che non solo non è più certo ciò che cantava Pino Daniele (“La Lega è una vergogna”) ma anzi che la proposta politica di Salvini restituisca a tutti, quindi anche ai meridionali, l’orgoglio di essere italiani (“Prima gli italiani!”).
Ma un meridionale come può anche solo ipotizzare che la Lega del “prima gli italiani!” teorizzi, attraverso la cosiddetta autonomia differenziata delle regioni, “prima i veneti!”.
Il Veneto, la punta di lancia leghista, ha infatti chiesto e ottenuto dal governo, nel silenzio imbarazzato e anche un po’ inconcludente dei b, un pre-accordo, fino a ieri secretato, nel quale le risorse pubbliche future verranno trasferite a quella regione per un numero assai ampio di materie (23 in più) non solo in ragione degli abitanti ma in parte dal gettito fiscale pro capite.
E’ chiaro che le regioni più ricche godranno di maggiori trasferimenti e quelle più povere di minori risorse. Ed è chiaro che domani tutte le regioni più ricche, iniziando dalla Lombardia e dall’Emilia, chiederanno il medesimo trattamento.
Ora è vero che il Sud ha le sue responsabilità. E’ vero che ha sprecato, è vero che la sua classe dirigente si è piegata a un clientelismo senza pari ed è maggiormente permeabile alla corruzione.
Ma se un papà, in questo caso lo Stato, ha due figli e premia sempre di più colui che più ha e toglie a chi ha meno, commette l’ingiustizia finale. E invece di unire, sfascia la famiglia. Salvini a parole vuole tenere unita l’Italia, nei fatti la disunisce.
Il Sud già è mezzo morto. Demografia a picco, economia a picco. Il Mezzogiorno è la regione d’Europa più grande e più povera. Con questa riforma, la secessione dei ricchi, si avvia al suicidio assistito. Il Sud lo sa?
Sanremo 2019, se il Festival aiuta l’Italia a cambiare
Per una volta il festival di Sanremo è più avanti dell’Italia. Per una volta è Sanremo che aiuta l’Italia a capirsi, conoscersi, cambiare. Ieri le chiamavamo canzonette per classificare un genere e anche uno stile di vita lontani dalla realtà, dai problemi che essa ci pone. Sanremo negli anni scorsi era divenuta una parentesi dal sapore indistinto, un allegro ma scemo karaoke dell’Italia più pop.
Il merito di Claudio Baglioni, tra gli altri, è di aver svolto con impegno e cura il compito opposto: far vedere il nuovo, mostrare – attraverso una canzone – come l’Italia cambia. E la vittoria di Mahmood contiene questa bella novità, perché allinea un ragazzo nato e cresciuto a Milano, quindi come lui con orgoglio ha specificato, “italiano al cento per cento”, ma anche un figlio di migrante, come il cognome dimostra, venuto dall’Egitto a cercar fortuna, all’altra decina di volti nuovi che hanno portato nelle case ritmi nuovi, tonalità, modi di pensare e di suonare.
Sanremo fa conoscere l’Italia a sé stessa, la fa scoprire più ricca e complessa, più viva e più aperta al mondo proprio nel tempo in cui la paura le consiglia di rinserrarsi in casa nella speranza che il sovranismo, parente dell’isolazionismo, la renda magari più egoista, anche più cattiva, ma più ricca e sicura. Sanremo mostra l’abbaglio e non perché ha vinto il ragazzo dal cognome egiziano ma perché su quel palco, mai come ora, sono sfilate generazioni nuove che per mestiere condividono, contaminano, hanno bisogno di aprire porte e finestre e respirare il mondo intero.
Chi doveva mai dirci che la direzione artistica di Claudio Baglioni, il cantante dell’amore, del sentimento anche mieloso, dovesse darci questa lezione di innovazione competitiva, di illustrare il nuovo che già c’è e che forse non conosciamo bene. Sanremo aiuta l’Italia a cambiare. Questa è una buona notizia.
I grillini, l’algebra e la storia. Un odio antico
Esistono le quattro operazioni algebriche. E tutti siamo dotati della virtù della moltiplicazione. Due per due fa quattro. Ed è inutile intestardirci a dire il contrario, sia che siamo di sinistra che di destra, con i gilet gialli o senza, grillini o leghisti, il risultato non cambia. Perciò ho sottoposto alla prova della moltiplicazione la cifra che il ministro delle Riforme Riccardo Fraccaro ha dato circa la riduzione del costo della politica con il taglio, appena approvato in prima lettura dal Senato, di 345 tra deputati e senatori. “Mezzo miliardo di euro per ogni legislatura”. Ho provato a moltiplicare il numero dei perdenti posti (345) per l’indennità mensile totale percepita pro capite (15mila euro) per gli anni (cinque) di una legislatura e il risultato è di 310milioni 500mila euro. Direte: bella cifra comunque! Per l’appunto! E allora perchè quei duecento milioni in più? Detto che a mio avviso i centri di costi sarebbero altrove (costa il clientelismo, costa la corruzione, costa l’evasione fiscale. Costa la criminalità. Costa l’incompetenza, la burocrazia ostruttiva), domando: perchè almeno sull’algebra non troviamo un accordo? Con i numeri i grillini avranno un’antica ruggine. Luigi Di Maio ha spiegato che ci si impiega tra le cinque e le sei ore ad andare col treno da Roma a Pescara. Ma Trenitalia giura che in tre ore e venti ce la si fa, e anche i pescaresi concordano. Domando: le tre ore in più dove le ha scovate? E ai francesi sempre Di Maio ha detto che la presa della Bastiglia è avvenuta in età carolingia: quasi 800 anni di differenza tra i conti del nostro vicepremier e quello dei parigini che ricordano come la Rivoluzione francese abbia solo duecento anni. Dunque sono 800 gli anni di troppo. Che ne facciamo?
Il Papa, gli abusi sessuali e la nostra ipocrisia
Poco interesse hanno suscitato le parole di papa Francesco che due giorni fa ha ammesso gli abusi sessuali perpetrati anche con violenza dentro la Chiesa ai danni delle suore. E non si tratta di episodi isolati ma di un segno purtroppo riconoscibile nella funzione e nel ruolo di tanti cattivi predicatori. “Preti e vescovi” si sono macchiati di questo orrido reato (oltre che per la Chiesa di un peccato mortale). Problema che viene da lontano e una battaglia non vinta, ammette il Papa.
Ogni dogma, ogni verità rivelata, ogni voto definitivo (quello di castità è sacrificio vivo e irreparabile) relega il dubbio a un vizio dell’intelligenza e l’ipocrisia – far finta di non vedere ciò che è davanti agli occhi – sta divenendo l’unico criterio selettivo delle nostre relazioni. E infatti ogni giorno il falso – anche grazie alla gragnuola di certezze sganciate dai social network – viene scambiato per vero, il possibile per certo, il probabile per sicuro. Per noi l’unico modo di dividere il mondo in buoni e in cattivi. E farci vivere e odiare in pace.
da: ilfattoquotidiano.it
Di Battista e la trappola del cambiamento
Io vorrei cambiare. Vorrei essere anzitutto più generoso. Anche più bravo. Vorrei essere più giovane, anche più furbo. Vorrei essere più alto, anche più colto. Vorrei vivere in un Paese migliore. Vorrei cambiare, ecco.
Bisogna stare sempre in guardia con le parole. Conoscerle anzitutto, e diffidare il giusto, tenerle a distanza di sicurezza, perché una parola detta male, spiegata male, intesa male, alla fine può ridurci in trappola, può toglierci ciò che invece noi speravamo ci desse. Pensate ad Alessandro Di Battista: lui vuole cambiare l’Italia. E per cambiarla, naturalmente in meglio, il suo movimento ha stilato un accordo con la Lega, che pure vuole cambiare il Paese. Insieme infatti hanno eretto il governo del cambiamento. La parola sembrava loro amica, alleata fedele. Ogni cosa sarebbe stata cambiata. In meglio. Matteo Salvini vuole cambiare l’Italia e difenderla dagli invasori. Vuole difendere anche le partite Iva dalle tasse, gli imprenditori dalla guardia di Finanza. Vuole ordine, sicurezza. Anche i cinquestelle vogliono cambiare l’Italia e difenderla dagli invasori. Vogliono tutto quel che vuole Salvini e anche di più. Vogliono che i ricchi stiano bene nella loro ricchezza e i poveri non siano però più poveri. Vogliono anche che le città siano più vivibili, la natura meno aggredita dallo smog, meno corrotti in giro, anche più umanità verso chi ha bisogno.
Hanno perciò lasciato che la parola – il cambiamento – facesse in libertà il suo corso. E così, però, stiamo diventando un po’ più buoni e più carogna. Più generosi e più disumani. Più vicini ai poveri e più razzisti con i diseredati. Un po’ più duri con i raccomandati, e un po’ anche più comprensivi. Contro la Rai dei partiti ma anche un poco a favore. A favore sia dell’unità nazionale che della secessione. A favore delle competenze, ma soprattutto contro. Contro il Tav ma anche per il Tav. Contro il Tap e anche no. Contro le trivelle o piuttosto sì. Per l’equità fiscale, ma senza esagerare. Per le piccole opere e anche per le grandi. Per le parole misurate e per quelle gradasse. Per la sobrietà e per il carnevale. Per la solidarietà e per l’egoismo. Ma noi sappiamo che non si finisce mai di cambiare. Così adesso siamo alla ricerca di qualcuno che sconfigga questo governo del cambiamento. Che sarebbe l’unico modo – vista la situazione – per cambiare davvero le cose.
da: ilfattoquotidiano.it
Atac, anche rimorchiare costa. Il codice dello spreco
L’Atac di Roma ha messo in bilancio 5,7 milioni di euro pur di garantirsi un servizio efficiente di rimorchiatura: i suoi bus vanno in panne e hanno bisogno di essere trasferiti in officina. Rimorchiare (e non fraintendete!) costa sempre di più. Se quasi tutta la flotta è in cattive condizioni (dodici anni la vita media di ciascun bus) e si blocca, singhiozza e s’intruppa, la spesa si innalza fino ad assumere i contorni parossistici di un buco nero nel già ampio buco nero della spesa pubblica.
L’esempio mi pare perfetto per illustrare il paradosso: serve una mole gigantesca di inettitudine per giungere a simili traguardi. Non bastano piccole dosi di truffe e sprechi, non ce la si fa se si è dilettanti. Bisogna essere proprio organizzati, dei professionisti spericolati, lavoratori del sabotaggio senza requie. A Roma, in decenni di impegno, ce l’hanno fatta. L’esempio, non ce ne voglia la nuova dirigenza dell’azienda che non porta responsabilità, è la vetta che si può raggiungere, e per di più senza necessità di vergognarsene e persino di dare conto. Di quanta disonestà abbiamo avuto bisogno per erigere questo monumento?
Ps. Buona notizia. Negli ultimi tempi le rotture sono un po’ diminuite e da 90.606 corse perse all’anno (e 17.703 guasti rilevati) si è giunti alla cifra di 49.092 corse in meno. Felicitazioni!
Dovevamo sconfiggere i talebani. Dopo mille miliardi spesi siglato l’accordo di pace. Con chi? Con i talebani!
Quando ci dicono “aiutiamoli a casa loro”, facciamoci il segno della croce. Si sia trattato di esportare il benessere o la democrazia, l’esito è stato sempre catastrofico.
Diciotto anni fa, dopo le Torri gemelle, gli Stati Uniti decisero di dare una virile lezione al mondo e chiamò l’Occidente a sistemare una volta per tutte i barbari aggressori.
Furono presi di mira i talebani e quindi fu decisa l’invasione dell’Afghanistan per combattere la “teocrazia del burqa”, arrestare “il ritorno al Medioevo” e ogni forma di terrore. L’Occidente ha speso in Afghanistan (rapporto MILX università di Harvard e Brown) 900 miliardi di dollari (stima al 2016). La guerra ha ucciso 140mila civili, il triplo li ha feriti, sono morti 3500 soldati. L’Occidente, sempre per combattere la “teocrazia del burqa”, ha speso per togliere ogni afgano dal Medioevo 28mila dollari all’anno, quando i suoi abitanti hanno un reddito pro capite annuo di 600 dollari. L’Italia, per far fronte agli impegni per la civilizzazione dei barbari, ha speso ogni anno della sua permanenza in Afghanistan 411 milioni di euro (“la più lunga e costosa campagna militare della storia italiana”, secondo il rapporto). In totale Roma ha pagato 7 miliardi e mezzo di euro (la ministra della Difesa oggi l’ha ridotta però alla cifra tonda di 7 miliardi) per esportare la democrazia. 53 soldati nostri connazionali sono morti.
E dunque dopo diciotto anni e – quando si tireranno le somme – quasi mille miliardi di dollari spesi, e dopo che l’Italia e l’Europa sono invasi da afgani in cerca di asilo politico, l’Occidente, per bocca di Donald Trump, annuncia il ritiro dall’Afghanistan grazie a un accordo di pace. Siglato con chi? Elementare Watson! Con i talebani. Sì, quelli del Medioevo, quelli della teocrazia del burqa, i terroristi, i barbari. Che sono i veri vincitori della guerra.
Prossimo obiettivo? Riportare la democrazia in Venezuela.
Il Tav e il costo del pregiudizio
Quando parliamo del costo della politica pensiamo unicamente alle poltrone. Al loro costo vivo, al bisogno urgentissimo di tagliarle perché in fondo consideriamo che rappresentare il popolo sia un modo per fregargli il portafoglio. Ci accontentiamo di azzannare il dito e trascuriamo invece di puntare lo sguardo sulla luna. Come si spendono i nostri soldi, dove si investono, dove invece si arrestano: quello è il vero, mostruoso costo della politica. Una scelta sbagliata quanto ci costa? Una norma inapplicata quanto ci costa? Un investimento scellerato quanto ci costa? Perciò ci sono degli ambiti della decisione politica, quello dei lavori pubblici, dove dovremmo tutti concordare sulla necessità dell’analisi preventiva dei costi e dei benefici che essa produrrà. Valutarne l’impatto, spiegare bene quanto conta farla e cosa succede se non si fa. Svestire di ideologia un’opera toglie senso a una contrapposizione inutilmente feroce come quella che da anni si combatte sul Tav. Alla luce di ciò che sappiamo oggi, e che avremmo potuto sapere ieri (il costo della sua costruzione è enormemente superiore ai benefici, quasi nulli, che essa apporterà) dovremmo comprendere il senso del pregiudizio. Col pregiudizio non si giudica. Si pregiudica soltanto.
Felicità, così l’abbiamo eliminata dall’elenco delle nostre aspirazioni
La radice del buon vivere è il buon governo. Cos’altro dovrebbe infatti essere la politica se non la cura dell’organizzazione sociale, e a cos’altro noi dovremmo tenere se non al raggiungimento della felicità? Gli americani giustamente l’hanno messa in Costituzione, noi invece immaginiamo che la felicità sia una condizione così tanto impossibile che non soltanto l’abbiamo quasi eliminata dall’orizzonte delle nostre aspirazioni, ma abbiamo impegnato il nostro tempo per scavare e tenere illuminato il senso opposto: quello cioè della nostra infelicità, delle nostre frustrazioni, delle nostre debolezze. Per dare una ragione alla nostra infelicità abbiamo poi dovuto individuare un responsabile. Prima la politica di casa nostra, che abbiamo chiamato casta, il potere che ci governa e, a nostro dire, ci regala pena e ingiustizie e poi siamo entrati in casa altrui (l’Europa? La grande finanza?), infine ce la siamo presa con gli africani disperati, colpevoli di farci vivere peggio di come potremmo.
Elencando i nemici abbiamo risolto la nostra questione di fondo, e cioè la nostra infelicità permanente, eliminando la domanda cruciale: e noi, in tutto questo tempo, dov’eravamo, chi abbiamo votato, cosa abbiamo fatto per la felicità?
Luciana Garbuglia, mamma di San Mauro Pascoli, quattro figli da mantenere e una casa da portare avanti, si è ritrovata ad essere la sindaca del paese. Come spiega oggi in un bel reportage il Fatto Quotidiano, la prima urgenza che la sindaca ha posto nel suo programma è stata la ricerca della felicità. Fare qualcosa per essere un pochino più felici. Ha convocato nella biblioteca tredici donne e ha chiesto loro cosa ne pensassero, quali fossero i primi atti amministrativi da compiere. Tutte hanno convenuto su un punto: troppo il tempo dedicato al lavoro, troppo poco quello dedicato alla famiglia e alle relazioni umane. Se gli orari degli uffici pubblici e anche delle aziende private fossero stati disposti per favorire questa esigenza primaria, allora il tempo libero sarebbe stato maggiore, e con esso la propensione a vivere, a incontrare, a incuriosirsi della vita più che ad odiarla.