SILVIO, IL MIMO CHE IMBRIGLIÒ MATTEO

Sono mancate le corna, quelle dei bei tempi, alzate durante un vertice internazionale di qualche anno fa, per alleggerire la tensione, dietro al capo del ministro spagnolo Piquet. Per il resto Berlusconi ha prodotto il meglio del suo repertorio spostando di lato, senza neanche forzare il bacino, un disorientato Salvini che ieri per distinguersi s’era pure fatto venire in mente di indossare, nel confronto clou quirinalizio, la cravatta verde Padania.

Il Berlusconi bombastico, teatrale, un po’ mimo e un po’ ermeneuta, ha compiuto, in favore delle telecamere, la sua prova nella nuova veste di Signor No. Interdetto dal Parlamento perché condannato, non gli è stato impedito di salire lo scalone del Colle e lui subito se ne è approfittato. Fregando sul tempo al rallentato leader padano il posto d’onore nel salotto di Mattarella, primo a sinistra invece che secondo, in modo che anche lì fosse chiara la misura della responsabilità. Poi, al l’uscita, nel salone della Vetrata, rendendo le dichiarazioni salviniane un intermezzo triste delle sue virtù comiche.

Ha fatto prima il bravo presentatore, come già il grande Biagi aveva profetizzato (se solo avesse una “puntina di tette” Silvio farebbe anche la presentatrice) e poi il mimo. Ha irretito il nuovo leader avvertendo che avrebbe dovuto dire solo ciò che era contenuto nella dichiarazione pattuita, “abbiamo discusso su ogni parola”, senza farsi venire in mente sillabe non concordate, e poi gli ha rotto le scatole seguendo – da mimo – la lettura del testo. Uno, due, tre. Col capo ciondolante, oppure lo sguardo fisso, la mano nel doppiopetto Saraceni oppure nascosta dietro le spalle, teneva il ritmo. Cosicché il leader si è ritrovato gregario, e l’interdetto ha svolto il ruolo dell’interditore.Continue reading

Francesco Fabbrizzi: “Renzi è la nostra luce. Il M5S ci tenta? Il nome del premier lo facciamo noi”

“Il fegato, i reni. Soprattutto il cuore. Sono renzianissimo dentro, e il dispiacere di non aver conosciuto Matteo si aggiunge alla delusione che gli italiani non hanno capito la modernità della sua politica”. Francesco Fabbrizzi è il sindaco di Radicofani, la rocca della cintura senese che fu casa e rifugio del brigante Ghino di Tacco, personaggio di cui si infatuò Bettino Craxi. Ghino di Tacco fu lo pseudonimo col quale il leader del Psi dominò la scena politica facendo pesare il suo piccolo bottino elettorale oltre il possibile.

Renzi potrebbe essere il nuovo Ghino di Tacco, e lei il sindaco del suo fortino.

I tempi sono cambiati e non credo che a Matteo possa riuscire quel che Craxi fece.

Fabbrizzi, lei è innamorato della politica e del suo partito, il Pd.

A 16 anni ero iscritto ai Ds, a 19 consigliere comunale, a 24 vicesindaco, a 29 sindaco. Per dire che la mia vita – ora di anni ne ho solo 33 – è stata una dedizione assoluta.

Renzi è la sua luce.

Senza di lui cosa rimane? Senza il suo piglio, la sua energia, la forza e la tenacia con la quale ha disegnato il percorso cosa c’è?

Ma proprio grazie al suo disegno avete avuto batoste inenarrabili.

Nessuno può convincermi che gli 80 euro non fossero un aiuto ai ceti più popolari del Paese. Anch’io per un anno ne ho goduto.

Un anno solo?

Poi in verità me li hanno tolti.

Che lavoro fa?

Operatore del servizio Acquedotti.Continue reading

DINASTIE. Orgoglio da metalmezzadri: “Ma si lavora e si muore di più”

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Terni

Generazione Acciaio. Roberto, Fabrizio e Juri. Come nonno, figlio e nipote, come una vita lunga un secolo e un quarto, come la tuta, perenne quanto il fumo in cielo e la polvere nei polmoni. Come Terni, centro di gravità permanente del laminatoio. Metalmeccanici altrove, metalmezzadri qui, e presto capiremo il perché.

Dei suoi 32 anni passati lì dentro ricorda la felicità esagerata, quell’euforia incontenibile dovuta all’arruolamento nella fabbrica che era come un matrimonio. La sposa perfetta era la tuta, compagna di vita, amore indiscutibile. Il laminatoio, il forno, la polvere, il rumore del martello. Roberto Marroni ora ne ha ottanta di anni e tiene il conto della gioia che gli ha fatto vivere la sua fatica, l’onore di essere operaio come gli altri, come tutti. “Si andava al sindacato che ti procurava il lavoro e la fabbrica era il nostro destino da conquistare a tutti i costi, l’aggiudicazione di uno status sociale, la fatica benedetta di ogni giorno quanto una fortuna, quanto il nostro piacere. La fabbrica insomma era il nostro Sol dell’avvenire”.

Terni era la fabbrica, le case subivano il ritmo di espansione dei reparti: più acciaio più camere da letto, più comodità, più acqua calda. Più polvere, più orti. Più scorie nell’aria, più insalata a terra. Perché Terni ha anche prodotto la figura del metalmezzadro, metà giornata in fabbrica e metà nei campi. Sicuramente operai ma ancora contadini: falce e martello, appunto.Continue reading

Polveri di Terni. Il partito della salute contro il potere d’acciaio

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Terni

 

Quel che si ama, rimane. Il resto, per dirla col Poeta, è scorie. È una pappa di cromo e nichel, quel miasma. E siccome tutto ciò che è solido, come ricorda Karl Marx, si dissolve nell’aria, ecco che le scorie, nella dispersione incontrollata dei fumi, diventano pulviscolo. E sono fiocchi di un guano spettrale che va a spalmarsi sui tettucci delle automobili, sulle spalle dei passanti, mischiata alla forfora, e così tra le zolle dei terreni intorno ai camini operosi di quella che comunque è in rapporto alla popolazione – e con ben 18 multinazionali operanti in città – il secondo polo industriale d’Italia.

TERNI È LA TERZA città d’Italia con oltre centomila abitanti a essere andata in bancarotta. È stata città Stato, città cellula, pupilla dell’occhio vigile del Partito Comunista, poi laboratorio delle trasformazioni della sinistra, oggi prossima a diventare grillina o più coerentemente – e si dovrà trovare il perché – leghista. Tra qualche settimana si vota e i risultati del 4 marzo non danno scampo. Nessun sogno, nessun onore al Pd schiantato dalla fatica di essere l’erede di un potere immanente e affluente, luogo di scambio di favori o bisogni: il lavoro in fabbrica attraverso il sindacato oppure a libro paga nei servizi assolti dalle cooperative, una per tutte la Actl, la padrona della città: mense, assistenza ai malati, diagnostica, tempo libero e pure la gestione delle cascate delle Marmore. Tutto affidato in una connessione sistemica, quasi sentimentale. A volte persino superando il diritto, sopravanzandolo con il principio di realtà. Inchieste e veleni. Anche qui scorie.Continue reading

VIAGGIO – Chi ride, chi piange (tipo Bossi)

Iniziamo da chi ha vinto. Per esempio Elio Lannutti, il senatore Cinquestelle sempre dalla parte dei cittadini: “Non si digerisce, per inghiottirla ho dovuto chiudere gli occhi e pregare che il mio stomaco fosse compassionevole”. È alla buvette ma non parla del salmone andato a male. Il bocconcino storto, amarissimo si chiama Elisabetta Casellati, la pretoriana di Berlusconi, l’avvocatessa delle leggi ad personam. Lui l’ha dovuta votare e Andrea Cioffi, della stessa squadra pentastellata, fa training autogeno: “Ma chi ha cacciato Berlusconi da questa Aula? Chi se non noi?”. Tolto il reflusso gastrico, che pure è stato potente per alcuni, la partita doppia ieri non ha avuto storia. E il silenzio col quale il Transatlantico di palazzo Madama ha accolto il passaggio di Matteo Salvini verso l’Aula, con una deferenza che neanche a De Gasperi fu riservata, marchia a fuoco il senso della svolta.

IL FORZISTA Renato Brunetta, che nei momenti di calma è ipercinetico, ieri era letteralmente in fiamme. Avvolto da lingue di fuoco, da una rabbia nero fumo, procedeva al telefono sviluppando cerchi concentrici. Non ha mai smesso di girare in tondo per una buona mezz’ora, e mai ha staccato dalle orecchie lo smartphone: “Pe-ri-co-lo-so”. “Non sarò più capogruppo, è un mestiere troppo pericoloso”. Infuriato per la piega degli eventi e per il sopruso col quale Salvini ha steso il titolare della ditta, e l’irrisione di cui ha poi dato prova dopo essere uscito da palazzo Grazioli: “Gli ho portato un gelato”. Sottinteso: al vecchio. E grassa, pingue, sonora la risata di Toninelli, la gioia con la quale lui e Di Maio hanno salutato Fico sullo scranno di presidente della Camera, come lieve, di circostanza, ridotta a un puro esercizio muscolare quella di Luigi Zanda, capogruppo in uscita di un Pd in disarmo: “Mamma mia, meglio non pensare a quel che abbiamo fatto. Anzi, a quel che non abbiamo fatto. Ma vedo che quello parla, parla”.Continue reading

Palazzo Mariuccia, il Parlamento pieno di matricole e novizi

Lui, il piccolo, con la camicia bianca chiusa in gola da un farfallino esausto: “Mamma, ho da fare la pipì”. Lei, allarmatissima moglie del neosenatore: “Non lo dire neanche per scherzo. Ma non vedi dove siamo?”. Siamo nel corridoio che conduce all’aula di Palazzo Madama, oggi zeppa di congiunti inorgogliti che conducono a fatica i propri corpi e quelli della prole verso il fatidico passaggio di babbo o mamma sulle poltrone di velluto rosso antico, da legislatore della Terza Repubblica.

È QUESTO un Senato formato junior, più sprintoso che mai. Signore ma giovani, alcune ancora con l’aria di ragazze attardate, come Gabriella Giammanco. Berlusconi l’ha voluta deputata nel pieno dello splendore e ora l’ha trascinata qui, l’ha resa senatrice: “Devo ancora abituarmi a questo luogo. Mi sembra tutto così strano”. Maria Rosaria Rossi, non per niente soprannominata “la badante” ai tempi in cui organizzava l’agenda e la vita dell’ex Cavaliere, è lì vicino a soccorrerla.

Strano, forse stranissimo questo tempo e questo luogo anche per Sabrina Ricciardi, rigorosa in un abito di sartoria, dai tratti delicati, lo sguardo un po’ frastornato ma cosciente, consapevole dell’impegno. Lei rappresenta la seconda ondata grillina, la maturità raggiunta e anche una certa classe, una compostezza, e anche uno status da nuovo potente, che cinque anni fa sembravano sconosciuti. “Piacere, sono la senatrice De Lucia”. Si danno il lei e c’è un perché. La dirimpettaia chi è? Giornalista o collega, amica di gruppo o nemica?

“Scusa, sai dov’è il bagno?”, interroga una signora in tailleur e scarpe rosse vive, leghista di sicuro che chiede al compagno di cordata, Roberto Calderoli, un’indicazione utile.

Non è attesa tremante questa, ma momento lieto, ozio proficuo, sorriso ascendente. Ecco Daniela Santanchè in versione Fratelli d’Italia dopo essere stata la pitonessa del Cavaliere. Trasferita da Montecitorio e più custodita oggi rispetto a ieri. In effetti il centrodestra si distingue per mise: più approssimato e casual quello leghista, ricercato, a volte sfarzoso quello forzista. In mezzo, né pitone né jeans, la Meloni, tutta di bianco bestita, la voce flebile del centrodestra e, a vederla come alza gli occhi al cielo, anche la meno pronta a spiegare le mosse che verranno.

SE SEI DI FRATELLI d’Italia il Lazio è la regione d’elezione. Parli Lega? Allora Veneto e Lombardia. Grillini del sud invece: siciliani, calabresi, pugliesi. I dialetti si sentono e i gruppi si ricompongono per geolocalizzazione. “Io? Sono la senatrice Toffanin, da Rovigo”. Giuliva, veramente felice, la signora è coccolata dalla famiglia, i figlioli sono emozionati e anche lei tantissimo. Come la moglie di Domenico De Siano, boss forzista di Ischia, transformers isolano, accumulatore di poltrone (sindaco, consigliere provinciale, regionale). Oggi qui, finalmente. La sua signora: “Contentissima”. E contento è Luigi Cesaro, conosciuto come Giggino ’a purpetta, per via dell’identità popolare, della grammatica faticosa e delle amicizie, a volte non specchiatissime. Sono due forzisti del sud sopravvissuti all’onda anomala.Continue reading

Ai giudici della Consulta non interessa la brutta figura sul caso Zanon

Quanto costa il comportamento di un giudice alla reputazione dei giudici, alla loro credibilità, all’idea che essi hanno di sé stessi, del fatto che dispongono della misura di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, di chi deve pagare dazio e chi invece guadagnare l’innocenza? Quanto costa la scelta di far utilizzare l’auto blu di servizio, dunque auto di Stato, alla consorte per fatti privati invece che al titolare per fatti d’ufficio? Quanto costa alla credibilità della Consulta, l’organo che custodisce la Costituzione, la mamma di tutte le leggi, aver liquidato con un “poteva farlo” la scelta di un suo membro, Nicolò Zanon di lasciare che sua moglie viaggiasse per fatti propri sull’auto pubblica, caricando i costi delle sue trasferte nella casa al mare sullo Stato? I giudici supremi non lo sanno, o fanno finta di non saperlo. O forse nemmeno gli interessa.

da: ilfattoquotidiano.it

 

Cincin: De Luca jr. fa festa a Salerno, dove ha perso

Chiamatela festa del ripescato, o anche del paracadutato, oppure del miracolato. È comunque festa. Ieri sera al Modo, locale cool del litorale salernitano, Piero De Luca ha salutato la sua elezione “con buona musica e tanti amici”. Piero è figlio di Vincenzo, santo patrono della città oggi in una fase lievemente declinante, e si ritrova a Montecitorio per via del paracadute che il Pd gli ha offerto, facendolo atterrare da vincitore, nonostante la sconfitta nel proprio collegio, in quel di Caserta.

Originale, unica e persino trasgressiva. Perché la domanda che tutta Salerno si è posta è stata: si festeggia la vittoria di Caserta oppure la sconfitta in città? Piero, neodeputato fortunello, ha già pronunciato parole nette e inequivoche: sente di aver vinto nonostante abbia perduto il collegio. Sente che quel 19 per cento, col quale si è piazzato al terzo posto dei quattro in gara, è una conquista – visto ciò che è accaduto – in qualche modo memorabile.

Essendo il Pd, come ha spiegato il papà Vincenzo, governatore della Campania, “un partito del nulla”, la performance realizzata non teme raffronti. La Salerno deluchiana, la città serva e prona, plaudente e magnificata, ha infatti ritenuto di condividere con il suo amatissimo e indimenticato conducator, il senso dell’improvviso nulla, dando un valore affettivo al vuoto imprevisto. Cosicché nelle due sezioni elettorali più prossime a casa De Luca, quella di via Calenda e quella delle Medaglie d’oro, Piero ha goduto rispettivamente del 3 e del 2,79 per cento dei consensi. Il baratro secondo una visione tradizionale.

La festa di ieri – molto avanguardista – avanza però gli occhi al nuovo orizzonte, al successo di domani. E intanto la legge elettorale già una prima risposta è riuscita a dare: ha compensato il vuoto con il pieno e ha permesso al corpo di Piero la cosiddetta bilocazione – come succedeva a padre Pio – facendolo gareggiare sia a Salerno che a Caserta nella stessa competizione, negli stessi giorni, alla stessa ora.

Piero bilocato ha fatto il miracolo e festeggia a Salerno la vittoria di Caserta.

Più precisamente Piero festeggia sia la sconfitta che la vittoria, a seconda dei punti di vista, quando ancora l’elezione col paracadute non è formalizzata perché Forza Italia ha chiesto il riconteggio di circa 20 mila schede. Ma qui, ed è a suo modo notevole, entra in gioco l’ottimismo della volontà.

da: Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2018

Di chi è il vento?

Di chi è il vento? Di tutti, naturalmente. Soffia per me e per te, ed è come l’acqua, come il sole. Potrebbe mai accadere che ciascuno di noi si impossessasse del sole? Tra le molte sfortune il Sud si ritrova una fortuna grande: è ricco di sole e di vento. E il vento, che nel Novecento era buono a scompigliarci i capelli, oggi è utile invece anche a produrre energia. Così il sole. Sono nate le energie rinnovabili, il fotovoltaico e l’eolico. Poteva essere una ricchezza di tutti e per tutti? Certo che sì. Invece è successo, col beneplacito di Istituzioni conniventi quando non corrotte, che in pochi si sono impadroniti del vento e del sole e ne hanno fatto incetta. Il vento ha soffiato solo in alcune tasche. E non c’è torre che raccoglie il vento, non c’è distesa di silicio senza una inchiesta della magistratura. Oggi la notizia che il re dell’eolico Vito Nicastri, l’imprenditore che ha fatto incetta di concessioni e che in Sicilia raccoglie il tesoro che la natura aveva riservato a tutti gli abitanti dell’isola, avrebbe finanziato la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Tutto torna, purtroppo e come sempre.

da: ilfattoquotidiano.it

Luciano Canfora – Come la commedia del teatro greco: ha vinto il salsicciaio

Paflagone, Nicia, Demostene e il Salsicciaio. Se la politica è anche teatro fa presto a trasmigrare, grazie alla memoria di Luciano Canfora, grande filologo classico, nella commedia greca. E i protagonisti sulla scena, Renzi, Di Maio, Berlusconi e Salvini sembrano tratti da I Cavalieri di Aristofane, 424 avanti Cristo.

Professore, chi è Paflagone?

Un servo che è riuscito a impadronirsi delle chiavi di casa e piegare il suo padrone, Demo, cioè il popolo, ai suoi bisogni. Paflagone, il servo divenuto tiranno grazie al suo carattere arrogante, la sua linguaccia, la protervia con la quale decide e consuma il potere è il nome d’arte che Aristofane attribuisce a Cleone, dirigente politico contro cui si scaglia. C’è bisogno che le dica chi è Paflagone?

Provo a indovinare: Matteo Renzi.

Ecco. Senonché due altri servi di Demo, Nicia e Demostene, altri nomi di piuma di due politici del tempo, un ricco notabile e un generale, decidono di utilizzare un Salsicciaio per far fuori Paflagone. Un salsicciaio? Sì. Il Salsicciaio è ugualmente immorale e ha modi orribili. È sufficientemente repellente, fa piuttosto schifo, ma grazie a un oracolo i due servi sanno che lui avrà forza e talento per far fuori Paflagone. E infatti grazie a un rito magico il Salsicciaio diviene un uomo civile e stimato di nome Agoracrito e riesce, con l’aiuto del coro dei Cavalieri, ad avere la meglio sull’usurpatore.

Il Salsicciaio è Luigi Di Maio?

Proprio lui.

La storia insegna ma ha cattivi scolari, diceva Gramsci.

Nicia il riccastro è Silvio Berlusconi, uguale uguale. E Demostene, il generale grande amante delle armi, è certamente Salvini, che pure sembra ammirare l’estetica della polvere da sparo.

Renzi dunque finisce come Paflagone.

Ha reso il Pd un sistema composito di capibastone, uccidendone ogni residua identità. Il Partito democratico è destinato a morire, non ha oramai nessuna possibilità di recupero e rigenerazione e questo esito è figlio della scelta, ahimè disastrosa, di uccidere il Pci e i suoi eredi e con la fine di quella tradizione è defunto via via ogni segno di sinistra nel Parlamento e nella società. È probabile, forse del tutto plausibile col personaggio, che si formi un gruppetto parlamentare a trazione renziana, il manipolo dei fedelissimi che con lui realizza la trincea della sopravvivenza. Comunque è una fine ingloriosa.

Non sembra però che lei ne sia addolorato.

Cosa vuole che mi addolori? Un partito nel quale il primo passante sceglie il segretario: hanno distrutto l’enorme tradizione italiana per realizzare il modello americano del comitato elettorale. La trasformazione è divenuta degenerazione. Si è smarrita ogni idea e con essa si è persa l’etica. Adesso ci saranno solo spoglie.

Ma se queste sono le condizioni in cui versa il Pd, come pensa possa gestire questo nuovo mondo a Cinque Stelle?

Ho fiducia in Sergio Mattarella, ritengo che giunti a questo punto si ha il dovere civico di metterli alla prova e capire se sono degli impostori o hanno qualità. Non c’è altra via. Il tempo rende gli uomini ragionevoli e i politici ancor di più.

Ha così tanta fiducia in Mattarella?

Fosse stato al Colle Napolitano non avrei scommesso un euro. Napolitano ha anzi la responsabilità di aver fatto gonfiare i consensi a Grillo come la pancia di una rana. La nascita del governo Monti li ha messi in condizione di lucrare, vivere una rendita parassitaria. Oggi, al punto in cui siamo, null’altro si può fare che dire: tocca a voi adesso.

Da: Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2018