Stefano Parisi: “Se serve a Milano, faccio pure il Comune della Coca Cola”

stefano-parisiLei si tinge i capelli.

Anche Confalonieri lo ha detto. Non è così, tocchi e dica.

Si candida a Milano ma punta a fare il leader del centrodestra.

Anche altri lo pensano, ma se vinco faccio il sindaco.

Forse perde.

Perdo, perdo, le va bene così?

Perché, se vince?

Sarei sindaco e i milanesi non perdonerebbero una fuga.

Infatti ha più probabilità di perdere: in quel caso lei contro Renzi.

Sciocchezze.

È ricco, è scaltro, è ambizioso, è permaloso.

Non sono permaloso.

Ha il portafoglio gonfio.

In questo momento sono in crisi di liquidità. Tutto ciò che avevo l’ho investito nella mia società.

Quanto le costa la campagna elettorale?

Zero.

Complimenti.

Non avrei potuto fare altrimenti. Mi pago le spese personali, al resto pensano i simpatizzanti, i finanziatori.

E Berlusconi.

Lui poco oramai.

Lei ha stomaco forte. Riesce a digerire anche Salvini.

Le qualità di un moderato sono quelle di sfilare le ragioni che alimentano i radicalismi, trovare le soluzioni alle argomentazioni di Salvini, smontarle, ridurne la portanza.

Il problema per il centrodestra è che gli elettori ci sarebbero pure, ma un partito non esiste.

Non c’è stata un’opposizione liberale a questo governo. Il centrodestra va rivitalizzato, riqualificandolo dal punto di vista morale. Stefano Parisi era socialista, ma Bettino Craxi gli stava sulle scatole. Era molto più a sinistra, molto più libertario, molto più vicino alle masse popolari. La storia ha presto compreso l’errore e ha proposto a Parisi il passaggio di campo. Lui ha accettato: “Il mondo cambia, e col mondo sono cambiato anch’io”.

Con De Michelis ha affinato la politica estera e nel tempo libero ha condiviso la redazione del potente saggio Dove andiamo a ballare questa sera.

Però sono andato una sola volta in discoteca, credo a Londra.Continue reading

ALFABETO – AURELIO MUSI: A questo nostro Sud servirebbe un nuovo Masaniello

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Ci vorrebbe Masaniello per salvare il Mezzogiorno e forse l’Italia.

Lo spiega Aurelio Musi, napoletano, storico dell’età moderna e studioso di questo giovanotto della plebe partenopea, Tommaso Aniello d’Amalfi, nato in Vico Ratto del Mercato, pescivendolo di mazzamma (minutaglia, scarto del pesce), pratico di contrabbando con moglie prostituta per necessità.

Neanche su Masaniello abbiamo le idee chiare, professore?

Certo che no! Il movente populista fa sì che a ogni piè sospinto individuiamo un Masaniello ovunque si odano urla, qualunquismi, sbreghi alle leggi, fanatismi. Che il ragazzo dei vicoli di Napoli fosse il portavoce della plebe non c’è discussione, ma la sua opera qualificante, chissà perché taciuta, è di aver saputo governare le speranze non soltanto degli ultimi e degli affamati. La vera grandezza di Masaniello è di aver costruito contro la nobiltà partenopea affamatrice e schiavizzante un blocco sociale largo.

Masaniello ha cucito alleanze?

Altro che! La sua visione è stata così politicamente sapiente da aver previsto un ponte tra la plebe e gli artigiani, i disperati e la classe borghese, gli affamati e i signori con le scarpe lucide. E Masaniello il ribelle è stato così tanto sagace da non perdere mai la bussola. Il suo obiettivo era di ridurre i privilegi dei nobili, riassestare e riequilibrare una condizione di vita più accettabile per il popolo senza mai mettere in discussione la Corona.

La realpolitik di Masaniello.

Quando lo si chiama in causa si rammenti questo suo profilo istituzionale, questa moderazione e questo rispetto. Che è stata la sua forza, seguita al miracolo di un’operazione interclassista.

E perché oggi il Sud dovrebbe sognarne un altro? Continue reading

Luigi De Magistris: “Renzi non lo insulto più. Ma io in piazza non mi so trattenere”

luigi-demagistrisNaturalmente non lo dirò più.

Poteva dire a Renzi, se proprio desiderava, che è tale la disaffezione nei suoi confronti da apparire impaurito, ansioso, in affanno.

Ho solo immaginato di affrontare le conseguenze fisiologiche della paura, ma era un comizio, non pensavo a calibrare. Non lo farò più.

Giuri.

Fino al prossimo comizio. Lo fissiamo alla data della vittoria così tutto sarà perdonato, ah ah… A me piace il teatro, e in qualche modo sono teatrale. Quando misi la bandana mica valutai la forza simbolica di quel gesto. Mi diedero qualcosa di arancione e io me la arrotolai in testa. Questa volta potrà succedere di tutto: che mi tinga i capelli d’azzurro, faccia un tuffo a mare, m’inventi un’altra cosa.

L’autocontrollo è la bussola del governante.

Lei crede che mi smarrisca? In quanto ad autocontrollo gareggio con Giobbe.

Giggino.

A casa mi hanno sempre chiamato Luigi. Da poco Gigi. Giggino è il nome col quale la gente si rivolge a me.

Luigi de Magistris, sindaco di Napoli. Detto anche, nell’ordine: Giggino a manetta, Giggine o’ skipper, Giggino o’ scassatore, Giggino o’flopp, Giggino a’prumessa, Giggino ‘ncoppa a gaffe. Scelga lei.

Giggino e basta.

Ribellista, populista, moralista, manettaro, demagogo, affabulatore.

Intanto e per servirla: quando sono entrato in questo Palazzo la città era coperta dalla merda, ops, scusi, dall’immondizia fino al collo. Napoli era una città vilipesa, deserta, corrotta, manipolata, inguardabile. Un miliardo e mezzo di debiti, con pagamenti ai fornitori senza data certa.

Oggi è oro.

Oggi non sarà oro ma è pulita, piena di turisti, la prima città italiana ad avere una percentuale di visitatori con un tale trend di crescita. Ogni settimana aprono tre B&B, è piena di energie culturali, i musei sono zeppi, i commercianti fanno affari, il lavoro cresce, la metropolitana funziona, e altre due linee saranno completate entro il 2018, i fondi europei in città sono utilizzati al cento per cento, i fornitori li paghiamo a novanta giorni, data certa. Abbiamo praticamente azzerato il disavanzo. E da ultimo: la camorra a palazzo San Giacomo è stata sfrattata. Detto tutto questo, Napoli è una città difficile, e fare il sindaco senza rotolare giù per le scale è un’impresa che può riuscire a pochi.

Sono bello, piaccio alle donne e si vede. L’ha detto lei non Walter Nudo. Continue reading

ALFABETO – VINCENZO VISCO “I giovani politici, le foglie morte del pensiero breve”

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Tra lui e la simpatia c’è la stessa distanza che separa Bolzano da Sciacca. Rideva poco quando faceva il ministro, ride poco adesso che è osservatore esterno. Non parla, mugugna. Non dichiara, sentenzia. Non spiega, garantisce. Ci sono alcune cose che non quadrano: per esempio fa pilates. Altre che invece quadrano abbastanza: “Se Renzi avesse ascoltato i miei consigli, avrebbe trovato il modo di far pagare le tasse e i soldi necessari per far respirare l’Italia e spingerla un poco più su. Ma a lui non frega niente di stanare chi evade. Non gli interessa, semplicemente e chiaramente”. Vincenzo Visco fu ministro delle Finanze di Prodi e fu Dracula per Berlusconi. Un mastino che riuscì a spillare 37 miliardi agli italiani furbetti. Il gettito aumentò del 10,3 per cento e lui: “Adesso sarebbe però pericoloso che ci mettessimo a dare i soldi in giro”.

Secondo lei questi governanti sanno di cosa parlano?

Macché, hanno la virtù del nullismo. Se sapessero cosa fare avremmo forse meno guai.

Vi hanno rottamati promettendo mare e monti.

La qualità, il talento di Renzi è la capacità affabulatoria, la micidiale scelta dei tempi con i quali si è avventato su un Pd in realtà parecchio inconsistente scaraventandogli addosso tutte le colpe, comprese quelle imputabili a Berlusconi. Si è fermato lì.

Perché si è fermato lì?

Due i motivi. Una scelta politica di conservare anziché innovare e non mettere in tensione rapporti con ceti sociali evidentemente interessanti da un punto di vista elettorale (solo così mi spiego la rinuncia a una vera lotta all’evasione), e poi la penuria di intelligenze e di competenze.

Oggi però sembra si studi più di ieri, ai nostri figli chiediamo impegno, proponiamo master, consigliamo giri del mondo.

Si studia, si studia ma poi? Non vedo profitto.

Gli economisti di Palazzo Chigi sono scarsetti?

Direi proprio di no. Ma hanno il problema dell’esperienza. Gli manca.

È come l’autista che impara a guidare mettendosi al volante senza patente. Poco alla volta, struscia di qua e struscia di là…

Diciamola tutta: la gente vede nella politica una classe inferiore.Continue reading

Piero Fassino: “Se perdo le elezioni non chiederò premi di consolazione”

fassino_piero“Piero mangia”, gli dissero con uno striscione le compagne cuoche emiliane al tempo in cui era segretario dei Ds. Sono passati gli anni, lui oggi ne ha 67, ma si ciba di parole. Alle quattro del pomeriggio ha bevuto due aperitivi, obblighi di incontri elettorali. I suoi collaboratori sono esausti, a una ragazza bollono i piedi, l’autista ha bisogno di zuccheri. Piero Fassino invece cingola nella ludoteca di periferia, alla barriera di Milano, tra le mamme del Maghreb.

Aveva giurato di fare un solo mandato da sindaco.

Questo non l’ho mai detto. Chiaro che ho riflettuto al momento della ricandidatura.

Sta a Torino come in esilio.

In Europa la classe dirigente è individuata attraverso le migliori esperienze di governo locale. Qui a Torino il mio compito era di tenere in piedi una città malgrado la crisi. Alla fine, faccio il bilancio e dico: Torino è riuscita a stare in piedi. Anzi, di più: a realizzare il miracolo di progredire nella qualità della vita urbana.

Penso che lei sia sprecato qui. Se Renzi l’avesse coinvolto, avesse utilizzato la sua esperienza…

Non ho capito: parliamo di Torino o di Renzi? La manda Travaglio per farmi parlar male di Renzi?

S’incavola come ai vecchi tempi.

Non m’incavolo!

Ed è anche permaloso.

Non sono permaloso! Vogliamo parlare di Torino o di cosa?

Di Torino e dell’Italia. Lei ha avuto responsabilità nazionali e ho il dovere di porle questa domanda: si è rintanato in questa città, non ha mai preso posizione.

Non è vero. Da presidente dell’Anci ho fatto battaglie campali per cambiare la legge di Stabilità.

Da presidente dell’Anci, appunto.

Ho favorito il ricambio e sostenuto lealmente Renzi. Una stagione nuova si è aperta.

Magari lei poteva spiegargli come si taglia il debito invece di farne altro, come si cura il partito invece di distruggerlo. Continue reading

ALFABETO – PAUL GINSBORG: “Lo ammetto, l’Italia della Leopolda non l’avevamo prevista. Ma uno storico non è un indovino”

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Quella di Silvio Berlusconi è l’Italia peggiore che abbiamo conosciuto, oppure ce n’è un’altra ancora che si appresta a mostrarsi: silente, indolente, affamata e conformista? Paul Ginsborg è maestro di storia patria ma londinese, è cittadino di Firenze ma antirenziano, è teorico della democrazia partecipata ma diffida di Grillo, pieno di passione per la politica e pieno di delusioni dalla politica. Infervorato e militante ai tempi dei girotondi contro Silvio il Re, acquartierato nel suo studio e più defilato oggi.

“Vorrei far sentire la mia voce in difesa della Costituzione per dire no a una democrazia personalistica, autoritaria, spiccatamente familistica. La premessa non mi esime da un’ammissione: no, io non l’avevo previsto che dopo Berlusconi avremmo dovuto fronteggiare quello che a me sembrava un ragazzone voglioso di affermarsi, ambizioso certo ma nella rete dei fenomeni locali. Un sindaco di carattere e poco più”.

Voi professori non ne azzeccate una!

Non direi. Non è compito dei professori guardare la sfera magica e predire il futuro. La serietà dei nostri studi e l’impegno nella sfera pubblica sono le cose che contano. L’università è stata attraversata da un feroce ridimensionamento. Io sono andato in pensione, chi mi ha sostituito? Tagliare la cultura significa impoverire la società, assicurare al potere, di qualunque natura e colore, ancora più argine. Meno analisi critica, meno approfondimento, minore conoscenza.

Ma che tempo è quello attuale?

È un’età di inquietudine, di forte preoccupazione. Che può apparire come indifferenza, con i cittadini oramai convinti che non esista altra possibilità che rassegnarsi. Eppure nella società hanno corpo decine e decine di iniziative magari minuscole e appartate, ma sono cellule attive, orecchie pronte ad ascoltare e a muoversi. Quando si connetteranno, se si connetteranno, scopriremo un’Italia diversa da quella che noi oggi raccontiamo.

Lei è fiducioso.

Sono un po’più ottimista di lei ma non è l’ottimismo o il pessimismo che contano in questa situazione.Continue reading

RENATO SORU. La Rete (bucata) di Mr. 500 parole

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Renato Soru usa le parole come noi le banconote da piccolo taglio. Un mazzetto di poche decine di euro le portiamo in tasca per gli usi quotidiani, il resto (se lo abbiamo) lo conserviamo in banca. Soru possiede meno di cinquecento vocaboli per i bisogni di tutti i giorni, il resto del suo sapere, che pure è largo, lo destina a faccende parecchio più impegnative. “Io penso solo al nuovo che verrà e a come costruirlo”, disse al Lingotto, il luogo mitico della Torino operaia dove Walter Veltroni stava battezzando il Partito democratico. Quel giorno (anno 2007) fece provvista di parole e spiegò che la politica non gli riguardava, non era affar suo e mai sarebbe stata tra i suoi pensieri. “Mai presa una tessera in vita mia e mai la prenderò”. Gli uomini, a differenza degli animali, hanno identità complesse e Soru oggi lo troviamo europarlamentare sfiduciato nel suo lavoro e serenamente assenteista nei banchi di Strasburgo. Fino a qualche ora fa era anche segretario del Partito democratico della Sardegna, fino a qualche anno fa anche consigliere regionale e prima ancora governatore dell’isola dove è nato (a Sanluri) nell’agosto del 1957.

È STATO – seppure per un breve periodo – l’uomo più ricco d’Italia, il primo ad accorgersi di Internet, il primo a fare affari mostruosi fino a detenere una società il cui valore in borsa rasentava quello della Fiat. Con Tiscali, trecento dipendenti nel periodo di splendore, è riuscito a vedere una sua azione valutata 491 euro e il listino dei sogni capitalizzato con un +1067 per cento. Silenzioso, tenace, testardo, ma soprattutto felicemente e persino un po’ spassosamente contraddittorio. Ha iniziato a far soldi costruendo e vendendo supermercati tra Olbia e Cagliari alla Standa, si è lanciato con profitto e preveggenza nell’avventura internettiana, intuendo agli albori del mercato il futuro nel quale saremmo stati immersi. Ha costruito con le sue mani Tiscali e poi con le sue stesse mani l’ha presa a martellate, inguaiandosi per di più. È stato, lo ripetiamo, il più ricco uomo d’Italia. Oggi deve vedere pignorati i suoi emolumenti. Si è iscritto alla Bocconi, ha lasciato la Bocconi pur di essere accanto al padre in momenti di difficoltà (si laureerà a 42 anni). Ha amato come nessun altro politico il mare e le coste sarde tanto da sigillare, con la sua firma, la più bella legge “salva coste”. A meno di due chilometri dall’acqua nessuna altra costruzione ammessa. Naturalmente la sua splendida magione di Villasimius affacciava direttamente sui fondali. Sua la imposizione della tassa sul lusso ai super ricchi. Però sempre sua l’idea di realizzare insieme ai fratelli Merloni e all’immobiliarista americano Bill Walters case da sogno in Costa Smeralda. Ha rilevato nel giugno 2008 l’Unità, ma l’ha lasciata (dopo averla persino un altro po’ sfasciata) appena ha perso la gara di ritorno con il centrodestra: la sfida per il bis in Regione con il berlusconiano Ugo Cappellacci.

DISSE ai giornalisti, mentre comunicava la chiusura delle redazioni periferiche del giornale: “Nessuno di voi mi ha chiamato per ringraziarmi quando ho preso l’Unità”. Disse ai giornalisti, quando annunciò la sua entrata in politica: “Nessun politico mi ha chiamato per chiedere spiegazioni”. Ieri, dopo la sentenza, ha detto: “Voglio star solo”.

Da: Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2016

Figli d’arte e signori delle tessere. Il Sud è tutto una Grande Famiglia

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Come piloni di cemento armato, tutto si tiene se reggono loro. Altrimenti, pouf, la casa va in rovina. Nessuno di voi conosce Raffaele Topo, detto Lello, da Villaricca? E per caso, vi è noto, Mario Casillo, nato a Boscoreale ma possidente in quel di Marigliano? Lello e Mario sono macchine di voti, facitori di tessere, raccoglitori di municipalizzate. Hanno cinto in un abbraccio vittorioso Vincenzo De Luca e lo hanno spinto sul trono di Campania. La catena gira, l’acqua scorre e arriva ai piedi di Matteo Renzi, l’ereditiere.

I voti si pesano e si contano, ma non hanno odore e sapore. E il Sud promette fortune a basso rischio. La vicenda di Stefano Graziano, il consigliere regionale casertano appena finito sotto inchiesta per aver favorito il clan dei casalesi, è il dazio da pagare all’imprevisto. L’indagine, il carcere, i guai giudiziari sono malattie professionali, rischi connessi all’attività. Chi non risica…

TORNIAMO al signor Topo e a Napoli. Lello Topo era il factotum di don Antonio Gava, il boss, il re della Democrazia Cristiana, il generatore di consensi e negoziati. Lello ha la sua scuola nel sangue e una capacità di mettere a profitto gli anni trascorsi insieme al caro leader che è servita quando ha dovuto scegliere con chi accasarsi. È l’uomo forte del Pd, uomo forte di Napoli e della Regione, quindicimila preferenze vista mare. È naturalmente presidente della commissione Sanità. A Napoli c’è Mario Casillo, un altro trasformer di grido, l’invisibile che registra i passi altrui e li decodifica, gestisce le acquisizioni politiche, assicura il governatore dai rischi delle urne. Diciottomila voti, ecco il risultato. Il consigliere Casillo è un’autorità.

Figlio d’arte, come tanti. Perché nel Mezzogiorno il potere si conserva e si tramanda per famiglie che a volte, come accade nel piccolo Molise, socializzano gli utili e producono economie di scala. A Campobasso il presidente si chiama Paolo Frattura, figlio di Fernando, ex deputato. Paolo era con Forza Italia, ma è stato eletto con il Pd. E ha trovato un gattone, così lo chiamano a Termoli, ad accompagnarlo nella sua corsa. Remo Di Giandomenico, già sindaco e già deputato del centrodestra, il gattone appunto, ha scelto l’amico del cuore quando ha dovuto votare per la Regione. E amico è anche Aldo Patriciello, imprenditore della salute e di altro, europarlamentare con Forza Italia. Tre famiglie un nome solo. Frattura incassa e provvede al bonifico: chi guadagna è sempre Matteo Renzi.Continue reading

ALFABETO – FRANCO CARDINI: “A noi italiani della giustizia sociale non frega nulla”

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Vogliamo dircelo? Gli italiani sono dei trasformisti nati e Matteo Renzi, che sostengo convintamente perché mi sembra svelto e sveglio, è maestro della manovra parlamentare. Mi ricorda, e non voglio scuotere la suscettibilità di alcuno, il Mussolini del 1924. È un grande manovratore e trova in Parlamento tutto ciò che desidera: le umane debolezze, i sogni di gloria, la vanità, l’interesse, perfino l’incompetenza. È una giungla dentro la quale si muove dare”.

Franco Cardini non è solo uno dei maggiori medievalisti che possiamo esibire, è anche appassionato di politica, annotatore degli usi sociali, delle private e pubbliche debolezze. È toscano ma di destra, ama la cucina, la polemica, il parlar chiaro.

Matteo, il suo amico, il re della giungla, ha appena cooptato Denis Verdini, capitano della squadra dei trasformers.

Sul punto dico questo, devo dirlo e mi spiace per Matteo. Persino per fare il portiere di condominio, aprire e chiudere il portone del palazzo e recapitare diligentemente la posta, ti richiedono i carichi pendenti. È insopportabile che solo chi governa sia svincolato da una minima misura di moralità. Mi pare un tantino esagerato, lei che dice?

Dico che ha ragione.

Ho ragione, ma agli italiani che frega? Si interessano alla politica solo sotto elezioni. E i politici promuovono le loro idee soltanto quando sono in campagna elettorale. E le loro idee, badi, sono ristrette alle alleanze. Con chi mi unisco questa volta?

Ha visto Berlusconi che scherzetto ha fatto alla Giorgia Meloni?Continue reading

Pouf, cessi e tagliatelle: la corruzione è un’arte

Ogni corrotto ha un gusto, un’età e un autore a cui è affezionato, una passione travolgente che l’ha convinto a infrangere le regole, favorire l’uno o l’altro pur di sentire suo l’artista.

Alcuni giudici brasiliani hanno pensato di far condividere al popolo l’estetica della politica e raccogliere in un grande allestimento al Mon (Museo Oscar Niemeyer) di Curitiba l’arte confiscata, cioè il frutto della corruzione. Finora, riferisce La Nacion, sono 272 i mirabili pezzi esposti e danno il senso di quale sia per il potere l’affezione ai grandi che hanno dipinto ed emozionato il mondo.

I giudici hanno fatto come quei cacciatori d’Africa: esibito i loro trofei e insieme, pietra su pietra, raccolto le prove che non solo la corruzione è un’arte ma che dalla corruzione può rinascere l’arte. In Italia da anni lavora alacremente e con buoni risultati l’Agenzia nazionale che gestisce la confisca ai malandrini di ogni risma, organizzati e anche disorganizzati, i frutti della loro pratica criminale.

CASE, TERRENI, pure quadri, naturalmente automobili di diversa metratura e valore, e ogni altro ben di Dio. Riferimmo poche settimane fa di una leonessa, oggetto del desiderio di un camorrista con il piacere di una Savana benigna e casalinga, che lo Stato è costretto a sfamare in un pensionato per animali degli Abruzzi. E non aggiungiamo di serpenti a sonagli, uccelli tropicali, pesci rari che il nostro governo ha identificato e sottratto alla malavita. Ciò che manca in Italia, e l’iniziativa brasiliana potrebbe suggerirne la realizzazione, è un polo espositivo, magari guidato da un manager attento e motivato, dove ammirare, diciamo così, il deposito culturale della corruzione. Far vedere cosa i corrotti sono riusciti a chiedere per sé e grazie ad essi (bisogna sempre ringraziarli) quale emozione il Paese riuscirebbe a donare a tutti noi. Il problema è che le nostre carceri non paiono ospitare corrotti e che i processi alla classe dirigente, come giustamente si dispera il premier Matteo Renzi, languono nei corridoi delle Procure. E poi: cosa potremmo o dovremmo ammirare? Il cesso di Mario Chiesa, l’antesignano di Mani Pulite? Certo, a pensarci, quel water, dentro cui tentò di disperdere i soldi inguattati, avrebbe un suo senso. Frustrante però. Buttare i soldi al cesso è la metafora dello spreco. E invece il corrotto non spreca, raccoglie.

TOLTI DI MEZZO i conti correnti, beni troppo immateriali, potremmo, dovremmo accontentarci allora del pouf di Duilio Poggiolini, il famoso Re Mida della farmaceutica di Stato, a cui furono sequestrati nella lunghissima maratona della polizia giudiziaria durata dodici ore, lingotti, dipinti, soldi, gioielli e i relativi scrigni, tra cui il magnifico pouf. Il pouf esposto sarebbe prova comunque tangibile di un ingegno vivo. Per restare in tema, Giancarlo Galan, l’ex Doge del Veneto a cui ieri, purtroppo, la Camera ha inflitto la decadenza da deputato in seguito alle vicissitudini giudiziarie, aveva fatto smontare finanche dei rubinetti del bagno la sua villona prima di consegnarla allo Stato.

I rubinetti di Galan, seppure non scrigni d’arte, potrebbero giocare un ruolo decisivo lungo la via della metafora: aprire il rubinetto sarebbe come leggere nel portafogli e magari andare, almeno con la mente, ai conti di Franco Fiorito, l’ex consigliere del Lazio, che aveva acceso conti correnti dappertutto e dentro i quali infilava soldi non suoi. E acquistato ovunque case e anche belle auto.

MA COSA si potrebbe esporre di simbolico per ricordare degnamente l’era del regionalismo in Italia? Forse un bel piatto di tagliatelle. Le tagliatelle di Pasqualino al Colosseo, il luogo in cui Fiorito chiamava al convivio, al piacere del palato e, insomma, al teatro della vita.

Da: Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2016303