Il Sud Italia, linea di confine tra chi conta e chi invece no

il_sud_deve_morireLA RINASCITA della discussione sul Ponte dello Stretto è la perfetta anteprima di questo libro. Perché il Ponte, usato soltanto per mischiare le carte della ragione e della logica, serve a far capire che del Sud non frega più niente a nessuno. Appendice oramai stanca e afona, terra che non è più nemmeno di conquista ma soltanto linea di confine tra chi conta e chi no, chi esercita diritti e avanza pretese e chi assiste da sconfitto alla vita che scorre. I tremila chilometri che Carlo Puca ha compiuto dentro il reticolo delle vergogne ma anche delle mirabilie di cui il Mezzogiorno è custode e testimone, sono la via maestra che completa la carta d’identità di chi si è reso responsabile dell’omicidio. Il Sud deve morire (Marsilio) è titolo adeguato, giusto, perfino prudente. I luoghi visitati, e sono tanti i paesi e le città, gli episodi e le malversazioni prese in esame, rappresentano la scena, il teatro del crimine. La forza di un saggio sta nel documentare i fatti ed essere inesorabile ad indicare i motivi, le responsabilità, i nomi e i cognomi. Quello di Puca è un compendio mirabile, anche se scabroso, di ciò che accade quando la responsabilità annega in mare e giace, come quei corpi di migranti che tentano di raggiungere Lampedusa, tra i fondali incustoditi della nostra smemoratezza.

Da: Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2016

TEATRO. Buttafuoco e la Sicilia pazza d’amore

buttafuoco-fotoDella storia si fa un canto, della vita un vizio, dell’amore il piacere. Gli anni dentro i quali Pietrangelo Buttafuoco inghiotte il suo cammino e lo trasforma in teatro sono quelli trascorsi in Sicilia, la terra a cui tributa questa dolce ninna nanna. Il dolore pazzo dell’amore (in scena a Roma al teatro Vittoria fino al prossimo 9 ottobre) è insieme tributo e speranza, racconto e fantasticheria, promessa e ricordo.

È potente e fisica la prova teatrale di Buttafuoco che racconta l’esistenza, la nostra e la sua, quando fiorisce e quando tramonta, quando si imbelletta e quando piange. Stana dal suo omonimo libro, pubblicato nel 2013 da Bompiani, il senso della sua scrittura e deve dire grazie a Mario Incudine, il menestrello di palcoscenico, se il racconto si accompagna al ritmo nervoso del tamburello e si fa pressante, vorticoso come la vita. Dall’amore di carne, che è segno dell’ardore, fino al tempo grigio ma vigile della vecchiaia, il pendio fragile, come fossero fianchi di una collina, da cui ci si incammina per scendere verso terra e farsi coprire da essa.

La musica aiuta Buttafuoco e il suo cunto sulla vita. Gli offre un sentiero e lo accompagna, fisarmonica e chitarra e tamburo, nei luoghi della memoria e anche della fantasia sicché chi ascolta, benché del siciliano comprenda poco, trova una traiettoria personale, come fosse dal sarto per un vestito su misura, e gode dei propri vizi ascoltando le virtù anche sconce dell’altro e accoglie il vizio capitale e perfettissimo, l’amore di sangue e di carne, ospite conosciuto e apprezzato.Continue reading

ALFABETO – DANIELE VICARI: “Facebook e i social servono a farci rimanere ignoranti”

daniele-vicariSuccede a tanti ed è successo anche a lui alcune settimane fa. Postava su Facebook le ragioni che lo avevano spinto a trattare i fatti del G8 di Genova nel modo in cui poi al cinema abbiamo visto. E certo Diaz è stato il film più popolare e apprezzato di Daniele Vicari. Il post improvvisamente scompare, sottoposto a censura. Lui dapprima non sa che fare, poi sceglie di protestare.

Contro chi ha protestato?

Contro un’entità immateriale: lo staff del social network . Staff immagino stia per direzione, governo, gestione dei problemi.

Staff, non un nome e un cognome.

Tutto assolutamente avvolto nell’anonimato, tutto imperscrutabile. L’angoscia di vedere diritti elementari, conquiste oramai consolidate, quali la libertà di espressione, venute meno perché gruppi organizzati, nemmeno un gran numero, segnalavano come “indesiderato” il tuo pensiero, la tua opinione. E un luogo indefinito che giudicava e decideva.

Ai tempi della conoscenza orizzontale, istantanea, popolare che dovrebbe far immaginare una democrazia più forte, condivisa, allargata a chiunque, una regressione dei diritti così plateale, evidente, esagerata.

I social hanno apparentemente dato la voce a chiunque volesse o voglia averla. E il potere della parola, prima appannaggio dell’élite, è divenuto patrimonio di ogni ceto, di ogni classe. L’irruzione sulla scena pubblica di miliardi di persone.

Facebook è il più grande continente al mondo: più di un miliardo e seicento milioni di persone lo abitano.

È una cosa così grande da divenire anche, come il mio piccolo caso, pericolosa assai. Consegniamo la nostra vita, i nostri affetti, i nostri segreti e la nostra parola, la nostra libertà a un’azienda privata che gestisce nel modo che crede quei dati e la nostra libertà e poi ci vende alla pubblicità.

Come può essere che non badiamo al rischio enorme di una esposizione così svincolata da ogni limite, vincolo, dovere?Continue reading

Stefano Schwarz: “Il No può vincere solo se non trattiamo gli elettori da babbei”

stefano-schwartzTra tanti nonni che battagliano per il No finalmente spunta un portabandiera giovanotto. Giovanotto è una parola grossa. Vado per i 33 anni e il grigio assassino nei capelli lei lo vede?

Stefano Schwarz è un tardo giovane. Ha l’aspetto di un faggio in autunno: longilineo, cresce dritto fino ai capelli che poi però si sviluppano a ombrellone. Sarà il portavoce del No al referendum.

Sarò portavoce del comitato presieduto dall’avvocato Guido Calvi.

Cioè D’Alema.

Sono andato da lui e gli ho detto: eccomi qua. Non lo conoscevo, l’ho visto all’appuntamento del mese scorso in piazza Farnese. Apprezzo il suo impegno, ma sono convinto che chi sta sotto ai 40 e viene chiamato a votare debba anche avere il diritto di confrontarsi con un suo contemporaneo. Lui ha apprezzato ed eccomi qua.

A D’Alema piacciono solo i dalemiani. Meglio se adulti.

Sono stato anche favorito dalla fiducia che mi ha accordato l’avvocato Grande Stevens.

Più che un comitato sembra un Rotary.

Sa che la maggior parte dei giovani è con noi? Che le simpatie referendarie al No provengono dai ceti popolari?

So che ci sono molti professoroni in campo. Terza età, ma di prestigio.

Senza i nonni l’Italia sarebbe già con le toppe al culo e in piazza a fare a botte. I nonni ci aiutano a pagare il mutuo, ci pagano le tasse all’università, le bollette della luce, a volte la ricarica del cellulare.

Capito, anche lei – benché piemontese e di buona famiglia – è squattrinato.

Avevo delle consulenze con l’Onu. Ma l’impegno politico non consente la prosecuzione del contratto che infatti è in stand by.

Con Matteo Renzi, con cui simpatizzò nel 2010, avrebbe forse avuto più fortuna.

Uno che scrive così la riforma della Costituzione!

Sarà sgrammaticato, ma politicamente è un fulmine.

La forma è sostanza. Il testo è un obbrobrio.Continue reading

Carmelo Barbagallo, segretario UIL: “La crociera fu una minchiata, ma così si raffreddava il clima”

carmelo-barbagalloMa dov’eravate?

A Capo Nord.

E com’era Capo Nord?

Ricordo che faceva freddo e c’era vento.

Al nord fa freddo.

A me la nave non piaceva e non me ne vergogno a dirlo: soffro di mal di mare. E di quelle scampagnate in acqua non capivo la ragione.

Purtroppo quel che è fatto è fatto. Segretario Carmelo Barbagallo: da oggi lei è il capo del sindacato in crociera. La Uil tra le onde.

Che minchiata che abbiamo fatto.

Molte crociere, molte minchiate. Ma anche molte trattative sindacali.

Erano i compagni dei trasporti e quelli della pubblica amministrazione. Spingevano per lo sciopero ma Angeletti aveva un’altra linea. E fu trovato quel modo per discutere con un po’ di calma.

Helsinki?

Non ricordo di essere andato a Helsinki.

Capperi, è bellissima. E San Pietroburgo?

Mi pare di sì.

E trattavate per tutti i giorni della crociera?

Ma guarda un po’ se uno come me a sessantanove anni dev’essere trattato per chi brigava per fregarsi le vacanze a spese del sindacato.

Lei non brigava, era il numero due e ha risposto al comando dell’allora numero uno. Bisognava fare la crociera e basta. Crociera per finta, lavoro invece.

Mica tutto il giorno si lavorava? Le discussioni duravano due o tre ore, ma si riteneva che quel clima vacanziero potesse agevolarle (secondo me no).

Però lei, Barbagallo, è qui a risponderne.

Altroché se ne rispondo! Vado ovunque mi chiamino, cerco io di incontrare gli iscritti e sono io a scusarmi. L’errore è stato grande, ma le mie mani sono pulite.

Intanto però c’è questa grana dell’imputazione.

Mah.Continue reading

Processione, il governatore De Luca toglie la voce al Vescovo

foto Massimo Pica
foto Massimo Pica

Può San Matteo, con tutto il rispetto e anche con la simpatia che si deve a un santo di così alto lignaggio, rifiutare di inginocchiarsi davanti a Vincenzo De Luca? È la domanda che corre a Salerno, ancora incredula davanti alla scelta del vescovo Luigi Moretti di evitare che il patrono della città, nel giorno della sua ricorrenza (21 settembre) facesse visita a palazzo di Città, sede del governo cittadino. Per il secondo anno consecutivo si è ripetuto lo sgarbo e benché De Luca oggi governi la Campania, Salerno resta la sua patria, la sua casa, il suo trastullo quotidiano. E così il sindaco pro tempore, Vincenzo Napoli, secondo cittadino essendo il primo reggente sia in corpo che in spirito, ha deciso di rifiutare la festa per il patrono e togliere la voce al vescovo.

Gli ha staccato i fili degli altoparlanti che avrebbero portato la parola di Cristo in città, ritenuti illegali. Di più: sia il primo cittadino spirituale (De Luca senior), sia il secondo pro tempore (Vincenzo Napoli) sia il terzo futuro (Roberto De Luca, figlio del primo e nella qualità anagrafica assessore al Bilancio) hanno disertato la cerimonia. E così tutti i restanti componenti della maggioranza consiliare hanno rifiutato di presenziare al vilipendio indossando la fascia tricolore. Anche la Provincia di Salerno si è unita al comune sentimento di riprovazione e ha ritirato il gonfalone dalla celebrazione statuendo la profondissima crisi di fiducia tra lo Stato salernitano e la Chiesa.

enza fuochi d’artificio, senza festa e soprattutto senza voce. Ridotto in miseria, San Matteo, al quale comunque è stato assicurato il portamento a spalla dai fedelissimi di Gesù, è riuscito a completare la processione, seguito dal vescovo Luigi Moretti, teorico del minimalismo religioso, al quale la comunità salernitana guarda però con un segno di cristiana diffidenza per gli eccessi integralisti.Continue reading

MA 4 MILIARDI PER QUESTO SISMA SONO TROPPI

Quattro miliardi di euro. È la cifra messa a preventivo dal presidente del Consiglio per riparare i danni del terremoto che ha colpito Amatrice e i Comuni vicini. Ed è una cifra, avverte Renzi, anche sottostimata. A meno che il presidente non voglia fare di quei paesini di montagna delle piccole Miami, trasportandovi anche mare e spiaggia, e magari fare soggiornare i suoi abitanti in villone dai rubinetti d’oro, la cifra appare a occhio nudo eccessiva, smodata, incongruente rispetto all’evidenza della realtà. Come ha scritto ieri Enrico Fierro, il primo dei problemi, e il primo test per Vasco Errani, il commissario alla ricostruzione, è quello di delimitare con esattezza i confini del danno per evitare ciò che accade sistematicamente nel periodo della ricostruzione: il continuo gonfiamento della spesa.

Ogni terremoto infatti porta con sé, come dono speciale, una truppa di affaristi che trova nel dramma l’occasione per spiluccare ben bene. L’affare si compie se il danno si gonfia. E come si gonfia? Allargando il territorio colpito, trasformando piccole lesioni in grandi ferite, adeguando all’insù i criteri per la stabilità sismica, avanzando continuamente nel bisogno. Ad oggi sono tre i Comuni dell’epicentro, completamente distrutti: Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli. I residenti dei tre Comuni non raggiungono, per fortuna, i cinquemila abitanti.

C’è poi una corona di centri in cui il terremoto ha danneggiato più o meno seriamente alcuni edifici (e parecchie seconde case), u n’area vasta ma nella quale insiste una popolazione non superiore ai cinquantamila abitanti. Lo sperpero de L’Aquila, città di 70 mila residenti a cui oggi non bastano 10 miliardi di euro per vedersi ricostruita, è così vicino e documentato, così tragicamente evidente che bisognerebbe far tesoro degli effetti nefasti dei fuochi d’artificio berlusconiani. Evitare il bis è – prima ancora che una virtù – una necessità.

Da: Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2016

ALFABETO – VITTORIO SGARBI: “Vado dove mi porta la capra, con i soldi compro altre opere”

vittorio-sgarbiDove c’è una capra c’è lui.

In effetti il trittico Capra-Capra – Capra mi ha espanso, corpo e spirito, in una moltitudine sconosciuta che grazie a Facebook e Twitter ha assunto proporzioni notevoli.

Di capra in capra, Vittorio Sgarbi aumenta il fatturato.

Vado dove mi chiamano, gli italiani sanno che ho fatto più io per l’arte che dieci Settis.

Lei va dove la pagano.

Anche, giusto.

In questo momento ha tre eventi in corso: il Caravaggio a Ginevra, La Maddalena a Loreto, La Follia a Catania. Quattro con Osimo.

La Fondazione Sgarbi, le grandi opere custodite per un’intera vita dalla mia famiglia, da mia madre, ora sono patrimonio comune. Bellezza esibita, dispensata, regalata agli occhi del mondo.

Imprenditore del bello e in alcuni casi anche subappaltatore del bello.

È il mio lavoro, la mia passione. Non ho alcun interesse per i soldi.

Com’è noto le fanno schifo.

Non dice male, mi servono solo per acquistare opere d’arte. Altro non voglio

Però, sarà una coincidenza, alcune volte i soldi le fanno cambiare idea.

Cioè?

Non so quanto le abbia dato Vincenzo De Luca a Salerno.

Troppo poco, mi sembra pochissimo.

Per quel pochissimo è riuscito a trovare nel Crescent, un mostro di tutto rispetto, le grazie di una Gioconda.

Avevo ritenuto dapprima la cubatura un po’ eccessiva, ma gli interventi riparatori del progettista, lo spagnolo Bohigas, mi hanno convinto che l’edificio razionalizzasse l’area.

Che senso ha parlare a gettone, entusiasmarsi a gettone?Continue reading

Evelina Christillin: “Le mie poltrone? Ho amici, sì, ma se sei una cippa…”

evelina-christillinEvelina Christillin è l’unica donna al mondo che abbia posseduto più poltrone che rossetti da labbra. Valdostana di alto lignaggio, torinese di elezione, sorridente in qualsiasi condizione di luogo e di stato, sportivissima, devota della Juve, ma prima della Juve devota all’avvocato Agnelli, è moglie di Gabriele Galateri di Genola, ora presidente delle Generali. Spiritualmente veltroniana, si tiene alla larga dalla politica.

Poltronista io? Allora contiamole insieme tutte queste seggiole che mi volete attribuire.

Avevo segnato.

Allora: c’è il consiglio di amministrazione della banca.

Due consigli.

Uno soltanto, mio caro: solo Cariparma, Carige non più.

La presidenza della Fondazione del Museo Egizio.

Giusto.

E quella del teatro Regio.

Quella non più.

Ah scusi, c’è lo Stabile…

Ma son cose vecchie! Vede che tiene il conto inesatto?

Bisogna dotarsi di un algoritmo per conoscere l’esatta condizione lavorativa della Christillin.

Voi del Fatto siete dei malandrini e cercate di vedere nero dov’è bianco.

Lei stordisce.

Poi c’è la presidenza dell’Enit.

Ecco il regalo di Renzi.

Vuol sapere? Presidente a mia insaputa.

All’insaputa è bellissimo.

È la verità.

Renzi è ottimista, volitivo.Continue reading

Così l’Italia s’innamorò del presidente austero e laureato alla Normale

ciampiUn numero, il 13, racconta la partita doppia con il potere, la sua doppia vita di banchiere e di politico. Tredici anni a Via Nazionale e altrettanti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Non è precisamente un uomo del popolo, non ama la piazza, anzi ne ha paura (“soffro di agorafobia”), eppure se ne serve. Si dichiara servitore dello Stato, eppure – per obbligo di ufficio – si fa mediatore con chi dello Stato ha una concezione proprietaria. Carlo Azeglio Ciampi ha il merito di aver sopportato due crisi epiche della Repubblica: la prima monetaria e l’altra morale. Ha affrontato con buoni risultati la prima e gestito la seconda con la tecnica della riduzione del danno.

Gli è toccato, da presidente del Consiglio, di prendere in mano un’Italia quasi fallita. Ce l’ha fatta a riportarla in una condizione accettabile. È stato chiamato, da presidente della Repubblica, a sorvegliare il tratto più facinoroso del ventennio berlusconiano, la gragnuola di leggi ad personam, lo sbrego quasi quotidiano alla Costituzione. Ce l’ha fatta a resistere, a non darla sempre vinta a Berlusconi.

L’ITALIA di Ciampi per lungo tempo non si è innamorata, e infatti non c’è ragione alcuna perché lo fosse. Agli italiani poteva mai piacere un laureato alla Normale, di matrice azionista, parte di una élite repubblicana antica e sconosciuta? Di un credente dai tratti fermamente laici? Uno che rifiutava, per senso dello Stato, di prendere la comunione in chiesa. Un giorno era nella cattedrale di Loreto e si negò, con un cenno del capo, all’ostia che il vescovo stava per offrirgli. “Come presidente della Repubblica rappresento tutti gli italiani”, avrebbe poi spiegato. Infatti, è poi diventato il presidente più amato, forse secondo solo a Pertini. S’è detto e s’è scritto che fosse anche massone. È però un fatto la confidenza così intima con Wojtyla da incontrarlo ogni settimana in Vaticano e fare colazione con lui, insieme alla moglie Franca e a don Stanislao, il segretario del papa.

Ciampi non ha goduto dell’eloquio fluente dell’uomo pubblico, anzi spesso incespicava e le finali rotolavano fuori dai periodi, si perdevano nelle lunghe subordinate che il Nostro (in gioventù insegnante di latino e greco) si concedeva. Mostrava del suo ruolo un rispetto così alto da tenerlo fuori dalla partecipazione popolare. Non chiedeva entusiasmo e nemmeno ne riceveva. Se nel ’93 raggiunse Palazzo Chigi chiamato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro, fu perché rappresentava l’ultima spiaggia di una Repubblica indebitata che si affidava al governatore della Banca d’Italia per mettere ordine nei suoi conti e dare quel che gli restava in termini di credibilità per ottenere un po’ di fiducia dai creditori. Scelta felice grazie alla quale Ciampi, sei anni dopo, siamo nel 1999, avrebbe conquistato il Quirinale al primo colpo, con una maggioranza schiacciante. Lo chiamano dopo che lui ha sperato e atteso invano di essere invece il successore di Romano Prodi, l’inventore dell’Ulivo, esperienza morta per mano di Fausto Bertinotti. Per Ciampi premier, il Ciampi ministro del Tesoro di Prodi, si dichiarò prima Walter Veltroni, che lo raggiunse nella sua casa marina di Santa Severa e poi D’Alema. Sembrò fatta, al punto che in attesa dell’incarico definì la squadra di governo. “Io resto vice”, gli disse Veltroni. Ma non arrivò mai la telefonata dal Quirinale dove invece venne ricevuto Massimo D’Alema…Continue reading