La ministra, Denis e gli altri volti al macero

E di lei ora cosa ne sarà? Più di ogni altro sembra che sia il destino di Maria Elena Boschi a intristirsi di botto e il suo orizzonte farsi nero come la pece. Il voto si è trasformato in uno scarabocchio sul suo viso. È la ministra delle Riforme cassate dal popolo. A Maria Elena non rimane che raccogliere le carte, svuotare i cassetti, allineare i tacchi amati delle sue scarpe e lasciare ingiallire nella stanza di palazzo Chigi – che non rivedrà più – ambizione e sogni. Era la preferita del premier, la più bella del governo, già venerata come Madonna pellegrina e in procinto di un traguardo alla portata del suo coefficiente politico: succedere proprio a Matteo Renzi. Ma ieri sera, nei ringraziamenti finali, non c’è stato nemmeno un cenno al suo nome. Soltanto l’anno scorso, era ottobre, accreditata come la più popolare dell’esecutivo. Poi il collasso e infine il trapasso. Banca Etruria, i soldi fregati ai risparmiatori, il babbo coinvolto… Come in una curva pericolosa Maria Elena ha perso il controllo di sé e da angelica è divenuta famelica, da venerata a maledetta. Persino il corpo ne ha sofferto e la sua bellezza, dapprima vagheggiata e idolatrata, è andata scolorendosi, annullata e perduta nel gorgo delle polemiche. Cosicché a gennaio di quest’anno la sua popolarità era già scesa di tre posizioni per giungere sotto il sole rovente di agosto al penultimo posto. Tristezza. Dal meglio al peggio, da fatina a streghetta. Da favorita a esclusa. Mandata in Sudamerica come meta triste e solitaria di un viaggio elettorale di serie B si è di nuovo accostata al proscenio ma con scadenti performances. Su tutte si ricorda il suo discorso a Campobasso: “Il Sì sarà anche una risposta al terrorismo internazionale”. Bum!

NELLA BAD COMPANY che il voto consegna al Palazzo, la trilogia dei volti andati al macero comprende sicuramente quello di Vincenzo De Luca. Sarà ricordato come il teorico della clientela, l’uomo della frittura di pesce, il governatore da voto di scambio. Il discorso tenuto agli amministratori campani sulla necessità di far votare Sì (“Me ne fotto se vi piace o non vi piace Renzi”) è una tavola sinottica dello scambismo, il dizionario della clientela. Sono i soldi che puliscono le coscienze e sempre e solo i soldi che convincono tutti. “Anda – te e portate al voto almeno la metà degli aventi diritto”. La metà ci è andata pure ma il voto non si è visto. E De Luca da campione renziano del fare, fare presto, prestissimo, diviene un girovago senza chiesa e senza casa. Come un calciatore con il contratto scaduto. È sul mercato, ma ora il cartellino vale assai meno. Il terzo posto d’onore va a Denis Verdini. L’uomo del l’ultimo miglio, Denis il fiorentino ha vissuto la sua stagione di imprevisto Costituente. Tenuto celato agli occhi degli elettori per tutta la campagna referendaria per via dei suoi molteplici guai giudiziari e della sua notoria levatura intrallazzista, alla fine dei giochi, proprio quando si sentiva lì lì per fare banco ed entrare da statista nel nuovo Parlamento e nel governo, il suo nome diviene un soufflè andato a male, e i polsini d’oro delle sue camicie si perdono nel campo degli sconfitti.

SERVIREBBE un elenco alfabetico per ricordarli tutti: iniziando dalla A di Angelino Alfano, e proseguendo con la B di Vincenzo Boccia, il presidente della Confindustria, la C di Fedele Confalonieri o di Pierferdinando Casini. E poi giù, fino alla M di Sergio Marchionne o alla S di Davide Serra, l’ipercinetico finanziere del renzismo. E poi ancora e ancora…

da: Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2016

ALFABETO – PIER CARLA CAMORIANO: Sindaca leghista nel Vercellese, ha accolto 14 nigeriane: “Sono mamma e nonna. Ho figlia e nipote”

camorianoC’è una città in Italia dove le donne sono più forti e sono meglio piazzate sul ponte di comando. È la terra delle mondine, la radice quadrata della società femminile contadina e operaia, la piana da biliardo dove Vercelli fa da caposcuola. Lì il prefetto è Maria Rosa Trio, il questore è Rosanna Lavezzaro, il sindaco è Maura Forte. Dal capoluogo alla campagna altre donne hanno fatto carriera. E a Covra, spiazzo urbano che taglia le risaie e accoglie ogni tipo di zanzara, è salita sullo scranno di prima cittadina Pier Carla Camoriano, amante dei fornelli e della Lega. Su quel che ha fatto Matteo Salvini dovrà riflettere.

Un giorno al sindaco fanno toc toc.

Vengo a sapere che un cittadino del mio Comune ha reso disponibile la propria cascina per dare ospitalità ai profughi. La mia comunità è così piccola, siamo poco più di 400 abitanti, e abituata ai riti della campagna, ai costumi di una vita piallata dalle abitudini. Le uniche emozioni ci arrivano dal telegiornale. E sui profughi non c’era da stare allegri: si vedevano solo casini in giro. Tante cattive notizie.

Il paese si scuote e s’indigna.

Siamo brave persone, i toni sono miti. Però la preoccupazione c’era. Chi mai verrà? E cosa ci aspetterà? La legge estromette il sindaco da qualunque decisione, però mi sono sentita ugualmente investita della responsabilità di tutelare il mio paese, rappresentare i timori più che legittimi.

E allora che fa?

Vado dal prefetto. E le chiedo di darmi una mano. È donna, e questo mi sarà d’aiuto. È una persona squisita e disponibile. Viene da noi in paese, incontra la cittadinanza. Mentre si discute pensiamo come fare, cosa fare. Mi dico: e se girassimo la frittata?Continue reading

Siamo affetti da “pregiudizio”, effetto collaterale del fanatismo

vincenzo-de-lucaChi può giudicare Vincenzo De Luca? Nessuno, risponde il ministro dell’Interno. Grazie a quel suo linguaggio – da caverna o da taverna fate voi – ha vinto le elezioni. E chi può giudicare la mamma che rifiuta di vaccinare suo figlio, convinta di fargli bene? Nessuno. E possiamo permetterci di sanzionare il twittatore ossessivo? Scrive ciò che gli pare, quando e come gli pare. Abolita l’etica, confusa dall’asineria generale con il moralismo, abbiamo abolito il giudizio. E infatti resta in piedi solo il pregiudizio. Anzi: viviamo sistematicamente di pregiudizi. È la nostra lama da taglio, il coltello da cucina con il quale affettiamo i nemici, apparenti o reali che siano. Vivendo una doppia vita, quella materiale e l’altra virtuale che scorre parallela sui social, spesso iniziamo a confondere i target e puntiamo il coltello dove non dovremmo.

COL PREGIUDIZIO in genere ci perdono i più deboli, che sono anche i più poveri. E ci guadagnano i forti, casualmente coincidenti con i ricchi. Ma come abbiamo visto nelle elezioni americane il pregiudizio, figlio della rabbia, produce il paradosso di vedere frotte di affamati che in fila votano per il loro affamatore. Il pregiudizio ci porta infatti nel luogo opposto a quello che ci siamo prefissi ma tacendocelo ci fa apparire quel che non è. I romani per esempio, che non amano essere giudicati, si accompagnano al pregiudizio come scelta di vita. Se le strade sono sporche, le buche sono in terra, le auto in doppia fila la colpa in genere è di uno solo: chi li governa. È questo un pregiudizio terapeutico perché li conduce dritti all’assoluzione: non c’è colpa né responsabilità. La questione riguarda gli altri. Quel che ne consegue è ai limiti della comicità: vorremmo le strade pulite anche se ci capita di imbrattarle, e i cassonetti a posto anche se a volte, per parcheggiare, siamo costretti a sospingerli oltre, e la fine della sosta selvaggia quando purtroppo ci capita di parcheggiare male.

NON DOVENDO essere giudicati da nessuno, proseguiamo liberi sulla strada dell’invettiva o, per i più pacati, su quella del solido e storico pregiudizio. È una scelta liberatoria che infatti ci ritorna utile al lavoro, quando infliggiamo ai nostri amici di facebook decine di post nell’orario di punta convinti – a ragione – che il computer si accende quando si è in ufficio, meglio tra le 11 e le 15, cioè nel cuore della nostra fatica quotidiana.

A QUELL’ORA in tanti lo leggeranno perché in tanti saranno al posto giusto nel tempo sbagliato. E in tantissimo giudicheranno o avranno già giudicato, forti del pregiudizio, quel che noi – simmetricamente – avremo fatto a fette con il nostro coltello affilato. Il giudizio è figlio della responsabilità, il pregiudizio invece un effetto collaterale del fanatismo, dell’ossessione o, nelle forme meno cruente, della faziosità. Giudicare costa, pregiudicare invece no.

Da: Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2016

ALFABETO – VITTORIO CONTARINA: “A forza di rapine mi hanno rubato anche la paura”

vittorio-contarinaAlza la serranda e attende.

So che mi ricapiterà. E so purtroppo che la scena, essendomi così abituale, non sortisce più emozione in me.

Dopo tante paure la paura è passata.

Sento di aver terrore della privazione di un sentimento umanissimo, della naturale condizione in cui un uomo in pericolo deve sentirsi. Invece sono un plurivaccinato della pistola alla tempia o al petto e questo fatto mi toglie tranquillità. Ho paura di non provare più paura.

Lei è solo un farmacista. Vorrebbe vendere le medicine e a sera rincasare.

Ho la sfortuna di esercitare in una zona molto popolare e degradata, tra Boccea e Torrevecchia, sul versante nord di Roma e di avere la farmacia che s’affaccia su uno stradone utile a una fuga senza rischi.

È un bersaglio continuo.

Finisce una rapina e attendo che arrivi l’altra.

Sa già che verranno a trovarla di nuovo?

Lo so. E quando succederà vorrei non pensare che è tutto normale, che in una società in cui gli emarginati sono tanti anche i delinquenti proliferano e qualcuno capita da me. Vorrei non abituarmi perché so che la troppa disinvoltura può produrre solo guai.

Vogliamo approfondire?

Stare davanti a un tizio che magari armeggia con la mano tremante e la concitazione dello sprovveduto senza avvertire alcuna emozione è una sensazione orribile.

Come contrasta la sua alterata percezione, la sua sfida passiva alla paura che oramai le manca?

Mi dico che devo stare concentrato, guardare bene i colori del vestito, la statura, i tratti somatici, tutte cose che possono servire per il riconoscimento in commissariato.

Immagino che la sua farmacia sia come Fort Knox.Continue reading

ALFABETO – CARLIN PETRINI: “La sinistra ha perso l’identità. Gli italiani? Migliori di chi li guida”

carlin-petriniIl socialismo trionferà, parola di Carlin Petrini, teorico della tavola come bene comune e della terra come mezzo di produzione ed emancipazione dei popoli.

Il socialismo, Carlin?

Cosa abbiamo conosciuto noi? La realtà del blocco sovietico, contro la quale ho combattuto e protestato e poi varie, eterogenee e fragili esperienze terzomondiste. Non abbiamo mai riflettuto abbastanza che nel nostro Dna, intendo in quello della società italiana, c’è una linfa vitale solidaristica che non si spezza, non muore. È il grande mondo del volontariato, la grande rete dei beni comuni, della condivisione e della connessione.

Il mondo è della finanza però.

L’ascesa di Trump ci dice che siamo alla svolta, al vicolo che ci condurrà davanti a una scelta. L’estremismo dell’elezione del magnate americano è figlio dell’inadeguatezza di Hillary Clinton, ma soprattutto del boicottaggio di una candidatura forte e politicamente chiara come quella di Bernie Sanders.

Sanders è stato giudicato troppo di sinistra.

Il solito errore, la sudditanza verso modelli culturali antiquati, la voglia di mitigare, ridurre fino ad annullare la propria identità. Io avrei votato Sanders e Sanders, credo e penso, avrebbe fatto vincere i Democratici. Invece la rinuncia, e con la rinuncia l’avvento di questo qui.

La sinistra ha avuto sempre riserve su se stessa, come se non ci credesse fino in fondo ai valori del socialismo inteso come divisore comune.

Infatti chi la vota? Sono milioni i cittadini che hanno chiuso con il voto, ma altrettanti milioni che ogni giorno si danno da fare per il loro municipio. È una ricchezza spaventosamente svilita. Co s’è il terzo settore? Chi mai parla delle mille e mille associazioni che in ogni borgo sorgono per fare qualcosa di utile, di buono e di giusto?

La sinistra ha bisogno di parole nuove e di un Papa straniero. Lei spariglierebbe.

Per quel che riguarda il papa abbiamo già Francesco che sta sparigliando parecchio. A proposito! Proprio ieri ho iniziato una collaborazione con la televisione della Chiesa italiana, Tv2000.

Un cosacco a San Pietro finalmente.Continue reading

Videoritratto di Aldo Bozzi (Un cittadino, a cura di Antonello Caporale e Antonietta De Lillo)

Dobbiamo ringraziare lui se non c’è più il Porcellum. E sempre lui se l’Italicum rischierà una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte. “Una legge elettorale ancora peggio di quella partorita da Roberto Calderoli”. Aldo Bozzi ha 80 anni, fino a poco tempo fa girava in motorino per la sua città, Milano. Ama il papillon e fa ancora l’avvocato. Non si è fermato di fronte alla enorme sproporzione di forze e di mezzi e ha impugnato, assieme a un gruppetto di amici e colleghi, la legge elettorale dimostrando che Davide può battersi contro Golia senza per forza uscirne sconfitto. La sua è la testimonianza di un uomo comune che chiede giustizia: “Siamo cittadini e non sudditi. Per questo difendiamo i nostri diritti”  di Antonello Caporale e Antonietta De Lillo

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Antonello, Pierluigi e il terremoto di Anna Dazzan

Uno è il poeta attualmente più celebre del Friuli, l’altro è uno dei giornalisti italiani più apprezzati. A farli incontrare la passione comune di raccontare il mondo intorno a loro e, a unirli, il destino di avere vissuto sulla propria pelle il terremoto. Sono Pierluigi Cappello e Antonello Caporale, firma del Fatto Quotidiano, che domani uniranno le proprie voci in un incontro particolarissimo. Il poeta Cappello, infatti, ha deciso di aprire le porte di casa sua a Cassacco a quindici persone (le prime a prenotarsi alla mail acasadelpoeta@gmail.com) per regalare loro alcuni versi del suo libro di poesie, in uscita il 24 novembre. Ad accompagnarlo, in quelle che saranno di due ore di parole ed emozioni condivise, il giornalista Caporale. «Io e Pierluigi ci siamo conosciuti mentre stavo lavorando su Alfabeto. Ci siamo visti, abbiamo parlato, ci siamo piaciuti e da allora siamo sempre rimasti in contatto». Prima ne sono nati degli articoli, poi dei capitoli di libri e, ne siamo abbastanza sicuri, ora anche un’amicizia. Una di quelle legate da un filo invisibile che unisce le persone dotate di una sensibilità educata a guardare la sofferenza e, da questa, ricavarne la bellezza. Cappello l’ha fatto con le sue poesie, Caporale con i suoi pezzi giornalistici. Entrambi l’hanno sperimentato sulla propria pelle con l’esperienza del terremoto. «Lui aveva nove anni durante il terremoto del ’76. Io – ci racconta il giornalista – ne avevo il doppio durante il sisma in Irpinia nel 1980. Quando ne abbiamo parlato, ho scoperto che i nostri ricordi sono simmetrici e speculari, che i terremoti ti entrano dentro e sconvolgono come fanno le guerre e in questo, in un modo che solo una rivoluzione di sofferenza può fare, ci siamo riconosciuti». Un tatuaggio sottopelle che è destinato ad appartenere a sempre più italiani. Luoghi diversi, tempi diversi ma sensazioni uguali. Quelle di uno sconvolgimento inatteso e fortissimo, che ha toccato persone, abitudini, ma anche luoghi. Ed è proprio di questi luoghi, paesi accomunati dalla meraviglia e dalla disgrazia, che Caporale parla nel suo libro “Acqua da tutte le parti” (Ponte alle Grazie), di cui parlerà a casa di Cappello. «C’è un’Italia che stiamo perdendo, fatta di piccoli paesi che si stanno spopolando, come una colonna vertebrale che si sgretola e scivola verso il mare». Per anni Caporale ha viaggiato macinando chilometri e storie di un’Italia nascosta e orgogliosa, che non poteva essere racchiusa in articoli destinati al quotidiano. «Così è nato questo resoconto sull’eternità di certi luoghi e certi paesaggi italiani dove il passato non finisce mai e il futuro stenta ad arrivare.

Paesi che si raggiungono solo a piedi, come Topolò, esempio unico e straordinario di avanzata eccentricità». Il giornalista sarà anche ospite oggi pomeriggio alle 17.30 a Casa Teatro, al Giovanni da Udine, con Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi.

Da: messaggeroveneto.gelocal.it, 11 novembre 2016

ALFABETO – Antonietta De Lillo: “L’avvocato Bozzi insegna: possiamo vincere, sempre”

antonietta-de-lilloSiamo nel mondo del non si può fare, nel tempo in cui ciascuno di noi si dice “io non conto niente” oppure se si trova al ristorante con gli amici usa il plurale: “noi non contiamo niente”. Per questo un giorno ad Antonietta De Lillo, che di mestiere fa la regista, è venuto in mente di raccontare le gesta di un uomo solo, della sua forza di volontà, della sua incrollabile fede nella giustizia, del proprio ottimismo smisurato nella ragione e nella volontà.

Tu hai scelto di raccontare la vita di Aldo Bozzi, avvocato, 80 anni, primo firmatario del ricorso che ha mandato in frantumi il Porcellum, la legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.

Un modo per dire a me stessa che era tempo di impegnarsi nella vita collettiva, nella politica. Per troppo tempo sono stata a guardare. Ma a furia di avere le braccia conserte ti accorgi che il mondo ti mangia, i tuoi rappresentanti ti negano persino il diritto all’identità o, come accade in queste ore agli americani, al minimo senso civile.

Che significa impegnarsi in politica?

Significa offrire quel poco che si sa e si può. La battaglia di Aldo Bozzi non è un romanzo, non un documentario, è una piccola pagina di quel che ciascuno di noi, se crede alla propria vita e alle proprie convinzioni, può fare.

Cosa ha fatto l’avvocato Bozzi?

Un uomo di ottant’anni, un antico e rigoroso liberale. Gli accadde che al momento del voto alle scorse elezioni politiche lui, sempre distante dalle cronache e dagli usi che si era dato il Parlamento, era convinto di poter dare la preferenza a una sua allieva che si candidava credo proprio nel Pd. Giunto al seggio gli spiegarono che con la nuova legge elettorale, si era al tempo del Porcellum, non avrebbe potuto. Quella spiegazione, che ciascuno di noi avrebbe accolto come l’ineluttabile sopraffazione del potere, dei forti verso i deboli, per lui, uomo del diritto, era inammissibile.

Inizia il ricorso al tribunale di Milano.

Inizia, confortato da un gruppo di amici e colleghi, non più di trenta, che sottoscrivono il suo ricorso. Lui dice: la Costituzione prevede che il mio voto sia uguale agli altri, libero e segreto. Con il premio di maggioranza il voto di un gruppo di cittadini peserà di più rispetto a quello di altri. E questo è anticostituzionale.

Da qui ti è venuto in mente di titolare il breve movie Un cittadino.Continue reading

Erri De Luca – L’arte, la religione e le vie di fuga tra mare e monti

erri-de-lucaLa montagna non è un muro e le vie di fuga sono infinite, le brecce e i trapassi da un pendio all’altro rendono i confini di carta e il viaggio una promessa mantenuta. La migrazione per Erri De Luca è decisione insieme dolorosa e mirabile, la vita che acchiappa la vita anzi la rincorre e la cerca ovunque finché la trova e le pagine di questo suo ultimo libro sovrappongono il viaggio fisico, il dolore e la necessità di fuggire perché l’acqua è più sicura persino della terra, a un altro metaforico che è l’approdo fantastico, i luoghi della mente dove l’arte ci conduce.

DE LUCA riunisce nella sua La Natura Esposta (Feltrinelli) i propri antichi interessi culturali (lo studio delle scritture sacre, il senso del Crocifisso) e quelli più propriamente politici (l’esodo dal sud al nord del mondo, la povertà che rincorre e mai trova la pace e la ricchezza, la guerra che insegue i nostri giorni e ci porta paura). Lo fa attraverso l’esperienza e la vita di uno scultore montanaro chiamato dapprima a condurre verso la salvezza corpi spaventati e indifesi e poi, per incarico di un prete, a restaurare una statua di marmo, toglierle il panno – pietoso senso del pudore – e riportarla alla nudità senza compromettere la forza divina, il senso religioso di quel gesto.

Corpi di carne e corpo di marmo. I primi che assediano la montagna e la superano, il secondo che giace inerme eppure dà ansia, suggestione, persino erotica, a chi è chiamato a denudarlo.Continue reading

Metro C, il cantiere infinito che divora miliardi e binari

metrocLa più grande officina dello spreco mai nata si chiama Metro C. Quarantacinque varianti in corso d’opera, il 22 per cento di spesa in più rispetto ai preventivi, almeno il doppio del tempo previsto per concluderla, almeno tre sindaci frullati dentro le carte bollate, almeno una Spa nata per controllare e morta complice delle controllate. Cinque grandi imprese italiane coinvolte, un mare di carte bollate, un tir di documenti sequestrati, un’indagine della Corte dei Conti, una relazione dell’Autorità anticorruzione, un’inchiesta della Procura. Cosa c’è di peggio, dove c’è di peggio di una linea nata per collegare il sud con il nord di Roma, immaginata per trasportare le persone dai Castelli a San Giovanni, poi al Colosseo, infine al Vaticano e di lì a piazzale Clodio, e finita per mangiarsi i binari su cui corre? È letteralmente così.

I BINARI DEL TRATTO ora in funzione che congiunge la periferia estrema a quella urbana (Pantano-Lodi) con 363 milioni di euro conteggiati come aumento della spesa, si consumano nella difesa dal peso dei cerchi d’acciaio della metro. Questione di pendenze, di assetto, di velocità? Chi ha progettato, chi ha verificato? Ma soprattutto, chi mai ha denunciato? Questione di approssimazione, o anche “superficialità”, come ha scritto Raffaele Cantone, nello stendere i progetti esecutivi, nel valutare, con i carotaggi le sorprese archeologiche. Un’opera nata da un contratto tra Roma Metropolitane, società che doveva governare i cantieri, e il consorzio aggiudicatario difforme dal capitolato originario, con i costruttori che si erano impegnati a realizzare il primo tratto convenuto non in sei ma in quattro anni (sic!) e il Campidoglio che dà il via libera a ridurre gli oneri di prefinanziamento a carico del consorzio da 436 milioni a 44. “Avremo la metro per il 2011”, disse Walter Veltroni. Si è visto poi. Avremo metà della metro nel settembre del prossimo anno, se tutto andrà bene. Avremo forse il collegamento a San Giovani e l’intersecazione con la linea A.

E avremo da aspettare il 2021, sempre a Dio piacendo, per vedere chiusa la vergogna e realizzato il trasporto sotterraneo fino al Colosseo. Ma avremo anche però da capire chi pagherà il conto della contesa giudiziaria che è un fronte aperto e terribile sui danari da corrispondere e quelli da negare. Negli anni il cantiere da monumentale si è trasformato in una scena fantasy. Hanno scoperto per esempio una caserma dei legionari di Roma costruita diciotto secoli fa, dalla superficie enorme, almeno la metà della contemporanea corrispettiva stazione metro, all’altezza di via Amba Aradam. Non un vaso, un coccio, un muro sbrecciato colpito da un martello pneumatico. Ma un’enorme caserma! L’hanno scoperta dopo che erano arrivati dentro. E i carotaggi pagati per cosa?

Di scoperta in scoperta il costo è lievitato: 3 miliardi e 47 milioni sono divenuti 3 miliardi e 739 milioni, il 22 per cento in più. E al consorzio delle imprese (Astaldi, Vianini del gruppo Caltagirone, CCC e Ansaldo) è stata affidata la direzione dei lavori, una cosa da matti come diceva e continua a dire Athos De Luca, il consigliere comunale del Pd che più di ogni altro e prima di ogni altri aveva visto nel progetto il ricettacolo di ogni sconcezza: “Come era possibile che tre stazioni costassero più di nove, come era stato possibile che il Campidoglio non avesse imposto alla direzione dei lavori un suo fiduciario che tenesse almeno i conti, segnasse i metri, i buchi fatti e quelli da fare in un sottosuolo così unico e così prezioso?”. Come sia stato possibile che a Roma i costi a chilometro della metro siano lievitati fino a 135 milioni, con la tratta fino ai Fori che raggiungerà i 272 milioni di euro mentre Madrid ne ha spesi 30 a chilometro, Parigi sessantacinque, Copenaghen 68.

COM’È POSSIBILE infine che adesso si faccia finta di allarmarsi davanti all’unica decisione ragionevole presa dal sindaco di Roma: fermare i lavori prima che questi si mangino le casse del Comune, sciogliere la società che li avrebbe dovuti controllare, Roma Metropolitane, prima che il tribunale chiuda con un lucchetto i bilanci e li seppellisca in qualche angolo di piazzale Clodio. Perché davvero è bizzarra la questione: saranno mille le inefficienze e le mancanze della giunta a cinquestelle e non c’è dubbio alcuno. Ma questa no, era l’unica possibilità per fermare lo scempio. Ora però il ponentino romano inscena la farsa dello stupore, dimenticando che la Metro C è stata la monumentale commedia dell’immoralità.

Da: Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2016