Roberto Moncalvo. Il renzianissimo di Coldiretti: “Il nostro è stato un Sì agricolo”

roberto-moncalvo“Il nostro è stato un Sì agricolo”. Le mietitrebbie per la riforma costituzionale. “Ho fatto un tour. Ho incontrato 120 mila iscritti e all’apertura di ogni discorso spiegavo la mia posizione”.

Si chiama Roberto Moncalvo, ha 36 anni, è torinese, produce ortaggi bio, ha una laurea in Ingegneria dell’auto e risiede per gli affari correnti a palazzo Rospigliosi al Quirinale. In metri quadrati la sua stanza vale un appartamento, gli stucchi e i quadri della nobile dimora spiegano che gli agricoltori italiani, benché afferrati al collo dalla crisi, hanno ancora un quarto di bue sotto il cuscino. La Coldiretti è l’associazione di categoria, la più antica e produttiva e amata lobby italiana. Ha un milione e 600 mila iscritti e un bilancio di circa 600 milioni di euro. Sarà merito delle vacche, della frutta o delle melanzane? Di tutto e di più. Moncalvo è il presidente del #cambiaverso.

Il Sì agricolo è una novità assoluta.

Il Sì del nostro mondo per le riforme. Non vedo dov’è il problema. Lei ha fatto raccogliere le firme agli agricoltori, come fossero un partito. Chi voleva raccoglierle, liberissimo di farlo.

S’è dato la zappa sui piedi.

Non abbiamo obbligato nessuno, eh! Massima libertà.

Ha scambiato la Coldiretti per un circolo del Pd.

Ma siamo seri: la nostra adesione al percorso delle riforme è stata convinta e leale.

Un voto di scambio: appoggio al referendum contro abolizione dell’Imu agricola.

Quella era un’orribile tassa. Ingiustissima.

Condivido. Però ha esagerato un pochino con l’afflato per Renzi.Continue reading

Luca Paolazzi, l’apocalittico di Confindustria

luca-paolazzi“Posso farle io una domanda? Lei come vede il futuro?”.

Nero come la pece. Siamo sbandati, gattini ciechi.

“Ecco, la vediamo uguale”. Luca Paolazzi è un analista coi fiocchi. Ha 58 anni e un passato da giornalista. Scriveva sul Sole 24 Ore. La casa madre, cioè Confindustria, lo cooptò e gli diede il compito di dirigere l’ufficio studi, un prestigioso club di economisti, autorevole, indipendente, pignolo. Tutto è filato liscio, cioè le previsioni erano solo previsioni. Accurate, linde, illustrate bene. Forbici, forchette, diagrammi, diagonali. Ogni cosa al posto giusto. Poi nell’autunno di quest’anno la sbandata. Complice il referendum, forse l’ansia di prestazione, la voglia di fare una bella figura, Luca e i suoi colleghi iniziano a erigere per il dopo voto un quadro del disastro che avrebbe comportato la vittoria del No. Via via che scrivono s’accorgono che il male avrebbe incaprettato l’Italia. Facendosi un po’ prendere la mano la crepa si fa voragine, poi frana e diluvio. In due parole: col No anche gli Appennini sarebbero finiti nell’Adriatico e tutti noi con le chiappe a mollo spiaggiati sulle coste albanesi.

Paolazzi, che algoritmo avete usato?

Abbiamo previsto uno scenario che si sarebbe potuto avverare.

430 mila nuovi poveri.

Tenga conto che al momento in cui scrivevamo, la legge di Bilancio non era stata ancora approvata, il premier minacciava di dimettersi.

Quattro punti di Pil mangiati dal populismo. Zagrebelsky come Attila.

Lo scenario era quello. Caos. Diamine, ricorda cosa diceva Renzi?

Choc.

Effetto choc. Crisi di governo, maggioranza sfaldata. Istituzioni in confusione. Stallo.Continue reading

L’UNICA VITTIMA: LA MOBILE STEFY

Solo lei c’è riuscita. L’unica ministra a mostrare le tette e l’unica ad essere cacciata da un governo fotocopia. Stefania Giannini, d’ora in avanti solo Stefy, è riuscita nella missione impossibile.

Non essendoci relazione alcuna tra il topless mostrato al bagno Mazocco di Forte dei Marmi nell’estate dell’anno scorso e la defenestrazione dal ministero dell’Istruzione, il motivo dell’odio assoluto che Matteo Renzi riversa su di lei è piuttosto chiaro. Aver trasformato centomila nuovi insegnanti, tolti alla precarietà, in altrettanti guerriglieri antigovernativi. “Sono stata ingiuriata” avrebbe detto ieri nel dimesso brindisi del congedo ministeriale.

Ricapitoliamo. Complice sua moglie Agnese, insegnante precaria, a Renzi viene in mente l’idea di inaugurare l’assalto al Palazzo avanzando come primo atto il progetto della cosiddetta Buona Scuola, monumentale operazione di reclutamento e stabilizzazione delle migliaia di prof a spasso: sai quanti voti! La Giannini, anche se si ritrova all’Istruzione senza un perché, esulta per i quattrini che dovrà gestire. E inizia a fare un po’ di caciara. Ruba al premier l’annuncio della Buona Scuola. Lo fa sola soletta al meeting di Cl a Rimini. Matteo s’infuria, strepita e avoca. Convoca un grande summit scolastico senza invitarla dopo di che dà alle stampe la legge, tagliuzzata e rimodulata. Di più, manda a viale Trastevere, dov’è il ministero, una sua sentinella travestita da sottosegretario, il deputato palermitano Davide Faraone, valente organizzatore di leopolde sicule, dette anche “faraone” per l’enorme afflusso di maggiorenti isolani di varie confessioni politiche, con l’obbligo di sorvegliare e riferire. La Giannini intanto sorride.

Non s’accorge che ad ogni manifestazione le urlano contro, oppure non ci fa caso, e se ci fa caso dimentica presto. Succede – per colpa di un algoritmo – che le assegnazioni di alcune migliaia di insegnanti siano abbastanza sconclusionate. C’è chi da Catania viene mandato a Campobasso e un mese dopo a Viterbo. In tanti s’incazzano e protestano. Lei sorride. La vita del resto le è stata sempre amica. Senza un perché si è ritrovata in politica. Alla cena elettorale di Forza Italia a Perugia (qualche anno fa era un’elettrice di Berlusconi) il Cavaliere la adocchiò, si era in casa di Luisa Todini, e le offrì la candidatura di presidente della Regione. Giannini, rettore dell’università per stranieri di Perugia, gradì molto. Screzi interni a Forza Italia obbligarono il Cavaliere a revocare l’offerta e Stefy, oramai rapìta dalla dimensione pubblica, traghettò il suo corpo presso Luca Cordero di Montezemolo, che aveva progettato Italia Futura, partito nuovo e rivoluzionario. Capì presto che si andava a nozze con i fichi secchi e passò con Mario Monti. Eletta senatrice, eletta segretaria di Scelta Civica. Infine ministro. Persuasa che bisogna essere sempre in movimento, quando Monti si afflosciò e la sua Scelta civica scomparve, saltò sul carro del Pd.

Le sembrò di aver fatto la cosa giusta. Poi ieri…

Da: Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2016

Dai droni israeliani ai turisti: cercasi Alarico disperatamente

alaricoIl barbaro c’è. E se non c’è, aleggia. E se non aleggia? Il barbaro si chiama Alarico, re dei Visigoti e saccheggiatore di Roma (410 a.C.). Un barbaro al quale Cosenza è così affezionata che da tre secoli sta cercando la sua tomba e le 25 tonnellate d’oro e le cinque d’argento del tesoro trafugato e deposto nel letto del fiume Busento. Ma il colpo d’ala finale e un quid di creatività in più, che come vedremo, chiama in causa anche le forze militari israeliane, l’ha impresso il sindaco Mario Occhiuto. Architetto viaggiatore e soprattutto teorico oramai da un quinquennio della necessità di Cosenza di agganciare la sua crescita a un volto, un’idea, una storia. Alarico è leggenda e Occhiuto chiede da tempo all’Italia di investire sul barbaro. Bello o brutto, buono o cattivo, sempre un richiamo turistico è. “Bisogna contestualizzare, altrimenti che diremmo di Alessandro Magno?”, ha spiegato più volte per contestare la cordata di storici e archeologi che gli rinfacciano l’effetto ottico, lo scavo sul nulla, la memoria suicida.

Il duello con storici e archeologi Trentuno di essi hanno rivolto un appello al ministro della Cultura perché non corresse dietro all’innamoramento insensato e soprattutto infondato. Tra i firmatari anche Licia Borrelli Vlad, membro Unesco, già ispettore centrale per l’archeologia e soprattutto firmataria dell’expertise che dichiarò inesistente la tomba. Con lei i maggiori archeologi e storici dell’arte, tra cui Salvatore Settis. Appello andato a segno, nel senso che il ministero ha stracciato la convenzione che lo voleva impegnato a finanziare Alarico, ma non ha spento l’energia del sindaco di Cosenza che continua a sognare una tomba, e se non una tomba un pezzetto di barba, un coccio di elmo, la punta di una spada. Qualcosa insomma che dal letto del Busento, il fiume che scorre e divide la città, faccia risalire il suo nome all’onore che merita. E soprattutto convinca i turisti che la città dei Bruzi è una meta imperdibile. “Giapponesi, tedeschi, francesi già riempiono le nostre strade”, ha raccontato una nota del municipio. Alarico è un brand vincente. Conta la percezione, la supremazia dell’apparenza sulla realtà.

I milioni e flash dei giapponesi In effetti era abbastanza bizzarro che lo Stato investisse quattrini alla ricerca del dubbio: c’è o non c’è? A proposito di scavi. Già nel 1747 Ettore Capecelatro, preside della provincia della Calabria Citeriore, mise alla ricerca del grande visigoto mille uomini. Scavarono e scavarono ma nulla si trovò. Era il 1965 quando un rabdomante col suo bastone biforcuto chiamò alla scoperta. Sentiva Alarico sulla punta dei suoi piedi. Altre certezze furono offerte da Natale Bosco, dipendente di un supermercato ma ultras sfegatato di archeologia che promise di aver individuato dalle parti di Tarsia il tesoro e il suo re. Nel salto dei tempi, riferito che anche Hitler si interessò, diciamo per competenza professionale, al grande barbaro, mito nazista, inviando il fido Himmler in Calabria, la questione Alarico è andata avanti pigramente. Fino a quando Occhiuto, che non dimentichiamo, per dare brio alla città, ha voluto Vittorio Sgarbi assessore, l’ha presa in mano e issata in vetta alle sue priorità. Nel bouquet di incontri che ha avviato a est e ovest del pianeta ce n’è uno anche con Edward Luttwak, stratega militare americano e gran frequentatore dei talk show italiani. Luttwak è anche cultore di storia antica e, saputo delle ricerche in corso, è giunto a Cosenza per pianificare un progetto supertecnologico. “Conosco un giovane ingegnere militare che si occupa d i Gaza e mi ha garantito che lui può venire a presentare un progetto militare per agevolare le ricerche”. Grazie a Luttwak, Cosenza è in attesa di droni israeliani che dovrebbero coordinare dal cielo ricerche avanzate con sofisticatissima tecnologia militare. Tutto è possibile, e a prescindere dalla realtà, un fatto è certo: “Investiremo 5 milioni di euro per edificare un museo intitolato ad Alarico”, ha detto Occhiuto. Cosenza è in corsa per divenire nel 2018 capitale della Cultura, e qualcosa si dovrà fare. Con il Visigoto, e a prescindere.

Da: Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2016

ALFABETO – DANIELE MANNI: “Prendiamo la vita e la buttiamo in aula: è la scuola buona”

daniele-manniÈ un prof volitivo, creativo, innovativo. Ai ragazzi dell’istituto tecnico Galilei di Lecce Daniele Manni, 57 anni, docente di Informatica, sta molto simpatico. Al punto di volerlo vedere premiato all’Italian Teacher Prize, costola del Global Teacher Prize, il Nobel per l’insegnamento nelle scuole voluto dalla Varkey Foundation presieduta da Bill Clinton.

Lei dunque gareggia per la prima posizione in Italia. Il miglior prof che abbiamo?

Ma no. Forse hanno apprezzato la disparità dei temi trattati con i ragazzi, l’arco dell’impegno scolastico e anche extra.

Lei insegna Informatica. Ma sembrerebbe che faccia tutt’altro.

Insegno l’informatica nel corso delle attività che svolgiamo. Abbiamo negli anni concorso a realizzare molti progetti in campo sociale. Dall’impegno per la pace (nostra è la bandiera più grande del mondo), al sostegno all’uso delle bici.

L’avete chiamato Movimento cinque selle per arruffianarvi un po’ quegli altri.

Minime strategie di marketing. Dobbiamo imporci sul mercato delle idee e delle opinioni. Nel Salento, piatto come un biliardo, l’uso della bici dev’essere ancor più incentivato. E poi la campagna per la pulizia del territorio con gli ecodays.

Un weekend con la scopa in mano.

Abbiamo chiamato a raccolta le famiglie dei ragazzi e tutti coloro che volessero partecipare. Ciascuno adottava un pezzetto di Salento e lo tirava a lucido.

Grande impegno sociale, ma l’informatica ancora non si vede.

Anche qui, capiamoci: questi progetti hanno avuto bisogno del supporto del web. E i ragazzi hanno messo in pratica le nozioni scolastiche, anche se da nativi digitali sono padroni della materia. Con me hanno affinato il carattere multimediale, hanno conosciuto un impegno pubblico che li rende più consapevoli e sicuri.

Il piatto forte suo però sono le piccole iniziative economiche.

Start up, oggi si chiamano così.

Elenchi.

Nell’istituto abbiamo creato una cooperativa di servizi che copre tutte le diverse attività imprenditoriali dei ragazzi. I nostri alunni hanno la possibilità, se lo desiderano, di immaginare e costruire aziende, un terreno economicamente profittevole.

Sono casi di studio o aziendine vere?Continue reading

Paolo il freddo: ha solo amici e non fa ombra

gentiloniChe spettacolo s’annuncia: il rottamatore che passa la campanella di presidente del Consiglio a mister Camomilla, al secolo Paolo Gentiloni. Dall’urlo al bisbiglio, dalla propaganda al freezer, dalle slide alla penna biro, dalle riforme alla stasi. Il tempo passa in fretta e Matteo Renzi decide di affidare in comodato d’uso il suo governo al proprio opposto, l’amico e mentore Gentiloni. La spiegazione è semplice: “Paolo ha il difetto di apparire senza verve ma il pregio di non tradirti. Se lo decide ti avverte sempre prima e ti spiega perché lo fa”.

IL PREGIO supera di gran lunga il difetto nella breve nota caratteriale che elenca l’amico deputato Michele Anzaldi. Ma da solo Renzi non avrebbe potuto imporlo se il prescelto non avesse avuto ammiratori in tutto il mondo. Papato e Repubblica sono d’accordo. Il presidente Mattarella è felice, il presidente di Mediaset anche di più. Il presidente Massimo D’Alema lo stima, il presidente Fedele Confalonieri gli è amico. Il Papa rammenterà il patto Gentiloni con il quale i cattolici tornarono nel 1913 alla politica. Il sangue blu gli scorre per via della discendenza dal conte Ottorino Gentiloni Silverj, nel cui palazzo oggi dimora.

Gentiloni la pensa sempre nel modo di mezzo, e questa sua capacità di unire un po’ sia la capra che i cavoli, gli consente oggi di essere sul punto di sbarcare a Palazzo Chigi. Ha 62 anni, una moglie, l’architetto Emanuela Mauro, e i capelli d’argento, gli occhiali rettangolari, i vestiti grigi, il loden verde. Ecco, lui è l’uomo del loden. Lo indossa a ottobre e lo ripone in armadio a marzo calato. Quando aveva 18 anni e frequentava il liceo classico aveva invece i capelli lunghi, niente occhiali, e già una passionaccia per la politica. Estrema sinistra, movimento studentesco, poi Pdup. Leader glaciale e rispettato. Non sembra abbia menato botte ma è certo che ha assistito, presumiamo con qualche godimento, alle legnate che cascarono sulla testa di Antonio Tajani, allora monarchico e dunque molto in minoranza al liceo Tasso, scuola di ambedue. Bisogna dire che la lotta per l’unità proletaria non lo ha mai distolto dalla fede. È stato catechista insieme ad Agnese Moro. Di lui si ricorda anche una fuga da casa quando decise di essere a Milano per la commemorazione della strage di Piazza Fontana. Di sinistra, comunista eterodosso, si infiammò per il pensiero di Luciana Castellina e iniziò a collaborare a Guerra e Pace. Di lì a poco (anno 1984) viene traghettato alla direzione di Nuova Ecologia da due compagni, Ermete Realacci e Chicco Testa. Anche se può incuriosire molto, Paolo Gentiloni non ha mai mutato tono, e il suo linguaggio, già felpato per via dei trascorsi familiari, è andato affidandosi e ancor più ingentilendosi con l’incontro con Francesco Rutelli. Di cui è stato portavoce e poi assessore al Turismo e al Giubileo a Roma. Di più: guidò la campagna elettorale di Rutelli a premier nel momento di maggior fulgore di Berlusconi e senza l’appoggio della sinistra di Rifondazione e di Di Pietro la vittoria sfumò per un soffio.Continue reading

Matteo Renzi. Bigliettini, porte chiuse e tanti: “Che fa?”

Sono le dieci del mattino e forse Matteo Renzi non si dimette più. Si dimette? chiede la cassiera alla buvette. Forse sì, forse no. Cielo azzurro, giornata calda, il Senato è il luogo della felicità ritrovata. Accarezza la manovra finanziaria, che il governo gli butta addosso intimando di votarla immediatamente, senza battere ciglio. Sarà l’impressione ma certo i sorrisi si sprecano. Persino Razzi ha ripreso colorito e sta illustrando a un microfono in modo piuttosto serio la propria idea di soluzione della crisi. Ci sono i polsini d’oro di Denis Verdini, uno di quelli che nemmeno col carro attrezzi – viste le turbolenze giudiziarie – vorrà farsi sfrattare da Palazzo Madama, e c’è lei, Maria Elena Boschi. Giunge verso mezzodì in un vestito total black, molto tenebroso e calibrato, per la sua ultima apparizione da ministra: chiederà la fiducia e via. L’ostile Mario Mauro esprime con un baciamano l’addio, alla collega ministra Giannini non toccano uguali riguardi.

I MORITURI ritornati in vita girovagano senza meta ma con serenità perché pure quelli del Pd hanno patìto lo stress renziano. Prendete Angelica Saggese, giovane e volitiva. Ha dovuto fare campagna per il suo suicidio politico. Era una senza speranza. La dea bendata, la cabala e infine il popolo italiano l’hanno restituita alla vita e al seggio. E vogliamo dire due paroline sul volto radioso di Scilipoti? “È come un nuovo inizio”, intona. Si apre o si chiude la legislatura? Alle due del pomeriggio proseguono le consultazioni foniche per appurare le condizioni psicofisiche del presidente del Consiglio. Davanti a un piatto di riso e lenticchie la comunicazione di due senatori pugliesi (area Fitto): “Si dimette e basta”. Alle tre del pomeriggio, quando il Senato ha già salutato la manovra approvandola con 173 Sì, le notizie sullo stato d’animo del premier sono più sconfortanti. Sembra che abbia cacciato la corte fuori dalla sua stanza. “Non mi fido di nessuno più” avrebbe detto. Indaga dentro di sé. “Che fa?” chiede il sottosegretario Vito De Filippo. “Forse lascia anche la politica”. Intorno alle cinque sbuca su Facebook un suo bigliettino d’addio, come fanno gli innamorati delusi o quelli che intendono buttarsi dalla finestra: “Ciao a tutti, Matteo”.

“L’AVETE FATTO scappare voi del Fatto”, dice Rossella Amici, signora settantenne che capeggia la protesta attempata e desolata davanti al Nazareno. “Ora l’Italia senza di lui come fa?”. Un’altra Rossella si fa avanti: “Sono qui per dirgli forte il mio sostegno (purtroppo però mio marito è grillino e non è venuto naturalmente)”. Le signore, qualche maschio anche sopra i settanta, una signorina con cagnolino a guinzaglio. Il gruppo, dal quale i cronisti si attendono qualche monetina stile Craxi al Raphael o in subordine almeno delle parolacce assestate contro gli esponenti della sinistra dem, resiste nelle sue funzioni per qualche decina di minuti. Fischia con discontinuità, infine si slabbra. Allora riprendono le consultazioni foniche. E Renzi dov’è? Nel suo studio: farà un comunicato stringato e senza dibattito. Dirà che si dimette. “Va a Rignano, ci lascia?”, domanda allarmato un membro del gruppo Facebook della protesta. Cioè lascia la politica, saluta tutti e dice ciao? “Ma che stai a di’”, lo corregge un amico.

Da: Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2016

La composta assenza della first lady Agnese

C’è una ragione perché ricordiamo il suo cognome oltre il nome di battesimo. E il motivo è che Agnese Landini è riuscita a conservare la propria identità nonostante un compagno così straripante ed eccessivo. È parsa premurosa verso di lui, egocentrico e perciò abituato alla solitudine dei narcisi, ma mai adorante. Non è una dote qualunque ed è giusto riconoscerglielo oggi. Agnese Landini ha resistito, non è esondata sui giornali, per fortuna non ha aperto le porte di casa alle tv. Non si è messa in posa ai fornelli, non ha cambiato giacca per andare a scuola. È riuscita a contenersi persino quando avrebbe avuto motivo per mandare a quel paese i fanatici che le contestavano il contratto di docente a tempo indeterminato. Come se lo status di moglie del premier avesse dovuto presupporre un di più di precarietà. Infine: non ha sorriso oltre misura, non si è commossa più del dovuto. È stata accanto al suo compagno per gli obblighi del cerimoniale. È sparita dal suo fianco quando ha scelto che fosse meglio sparire. Ed è ricomparsa quando lui ha chiesto una mano e lei ha valutato di dargliela. Chapeau.

da: Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2016

Il potere è sempre antipatico, ma Renzi ci ha messo del suo

nardiL’antipatia è come una casa: si costruisce giorno per giorno, mattone su mattone. Matteo Renzi ha impiegato due anni per divenire antipatico e ci è riuscito. Avrebbe potuto far meglio? Nel senso di essere più simpatico, alla mano, prudente, modesto, sobrio? E se avesse fatto meglio sarebbe riuscito a raccogliere più voti, più sorrisi, più battimani? “Il potere è sempre antipatico, è quoziente ineliminabile della funzione, è linea indelebile, segno che qualcuno sta sopra di noi e ci comanda e per ciò stesso – ricorda Marco Belpoliti, geografo del corpo del potente, indagatore del sopracciò – ci sta sulle scatole. Ma proprio la sua spavalderia è stata mezzo di trasporto verso l’alto soglio. La furbizia, la scaltrezza l’hanno reso popolare, e i cortigiani hanno baciato la sua mano proprio in ragione del vasto encomio pubblico. L’adulazione di cui è stato oggetto ha la medesima radice. Egli ha guadagnato fama per il talento che ha dimostrato, ma anche per i tratti salienti del suo carattere: la velocità con la quale ha preso posizione, la disinibizione nei giudizi, la capacità di spiazzare, la sapienza nell’utilizzare la battuta fulminea e tagliente. E poi quel sarcasmo, quell’aggressività lessicale. All’opposto, come uno specchio rovesciato, il quoziente di antipatia saliva e saliva e saliva. Relazione funzionale al potere conquistato, all’adulazione e al consenso ottenuto”.

NON SAPPIAMO in che modo possa tornare il nostro Matteo ad essere simpatico, come chiedeva Oscar Farinetti, il re del sorriso commercializzabile all’ultima Leopolda. Magari togliendo di mezzo l’aereo di Stato fino a limare i dettagli, riducendo anche i selfie? E sarebbe bastato? Magari c’era da fare un buco anche nella scorta della polizia, il cordone che lo isolava e a volte lo difendeva a suon di manganellate, dai disturbatori di ogni genere e colore politico. “La mia scorta è la gente”, aveva detto all’esordio. E si è visto. Come la bici. Ha pedalato cinque minuti e poi via con le auto blu. Restano sul campo alcune domande secondarie inevase: andare da Barbara D’Urso fa simpatia o antipatia? Vestire da Fonzie è una figata o una stronzata? E le slide? Parlare al Paese riducendo a slogan le leggi fa capire o incupìre? Insomma: troppo bravo o troppo furbo? La proposta di Farinetti di ritornare ad essere simpatico è comunque bocciata da Belpoliti. “Si tratta di una banalizzazione della questione. Antipatico è perché potente. E col potente noi cittadini utilizziamo prima del giudizio il pregiudizio. Abbiamo bisogno di trovare una ragione ai nostri pregiudizi: l’antipatia è perfetta”.Continue reading

PER VOTARE UNA LEGGE GIÀ C’È: UGUALE PER TUTTI

Basta riaprire i cassetti e tirarla fuori. La legge elettorale è bella e pronta. È quella che seguì al referendum popolare che nel 1993 aveva decretato l’abolizione del sistema proporzionale. Il popolo è sovrano, vero? Il Parlamento approvò la riforma che coniugava felicemente la governabilità (75% dei seggi attribuiti col maggioritario) con la rappresentanza (25% col proporzionale), introducendo il deputato di collegio e restituendo alla politica una relazione quotidiana e diretta con il proprio eletto. Con quella legge si sanerebbe poi la ferita del Porcellum, sistema di voto ideato per costruire la vittoria a tavolino di una parte, e si supererebbero gli eccessi dell’Italicum che regala il governo alla minoranza assoluta del Paese. Il Mattarellum piaceva nel 2013 a Matteo Renzi, per fare un nome. E a Beppe Grillo, per farne un altro. Renzi sostenne lo sciopero della fame di Roberto Giachetti per convincere il Pd a superare le secche di una legge ingiusta e restaurare il Mattarellum. Allora il partito era guidato da Bersani, premier era Letta. E fu no. Ma quella mozione fu sottoscritta e condivisa anche dai Cinque Stelle e da Sel. Vero che il centrodestra è stato sempre contrario, ma nel tempo i giudizi su quel sistema sono via via cambiati tanto che un esponente di quello schieramento, Gaetano Quagliariello, oggi sostiene l’opportunità di farvi ritorno. E l’obiezione che, a differenza di ieri, il sistema sia tripolare è totalmente superabile. L’aggiornamento del Mattarellum con un premio di maggioranza di 90 seggi alla lista o coalizione meglio piazzata (la legge prevede il turno unico) è già stata illustrata fin nei dettagli da tre parlamentari del Pd che l’hanno riproposta. Se si vuole andare a votare la legge c’è. Ed è finalmente uguale per tutti.

Da: Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2016