Emanuele Macaluso: “Il nuovo patto tra B. e Renzi farà ancora scindere il Pd”

Sono 93 gli anni di Emanuele Macaluso. È un comunista siciliano di prima generazione formatosi durante le cruente lotte bracciantili dell’isola nel cuore del Novecento. Col tempo si è convinto che l’unica salvezza per la sinistra fosse il riformismo: un passettino alla volta, piccino piccino. Pantofole anziché scarponi, mano aperta più che pugno chiuso. Nel ventennio appena trascorso ha formato con Giorgio Napolitano una coppia di veterani al potere: il primo amico e consigliere prediletto, il secondo presidente della Repubblica.

“Voi del Fatto avete sbagliato grandemente a considerare Napolitano un nemico. È stato l’uomo politico italiano che ha goduto della più larga reputazione, e un solido punto di riferimento internazionale. Sono suo amico ma ho sempre difeso la mia autonomia di giudizio, come del resto ama fare lui. Espongo il mio pensiero e rispetto il suo. Questo il senso ultimo e vero della nostra connessione”.

Senatore Macaluso, francamente i risultati sono stati assai deludenti. Il torto ve lo assegna la storia di questi anni, non il mio giornale. E la scelta di Napolitano di agevolare la corsa di Matteo Renzi? Che poi si è rivelata un disastro? La decisione di mandare a gambe all’aria Enrico Letta? Il referendum sulla Costituzione?

Solo io so quanto Napolitano abbia stimato e sostenuto Letta. Cosa avrebbe dovuto fare davanti a un voto della direzione del suo partito e dei gruppi parlamentari che lo sfiduciava? Quale altra scelta era plausibile?

Ora però Napolitano sfiducia Renzi.

Mi pare che già durante la campagna referendaria gli avesse fatto intendere che col personalismo non si raggiunge nessuna meta. Adesso questa orribile legge elettorale… So che interverrà al Senato proprio sul tema della fiducia posto in modo così inappropriato. Tragga lei le conclusioni.

Le tragga lei invece.Continue reading

ALFABETO – ARMANDO SANGUINI: “Il nostro nemico non è un terrorista se non è islamico”

Le autorità hanno riferito che la strage non ha una matrice terroristica”. Ci basta questa notazione, che la conduttrice del telegiornale spesso illustra con un eloquio più tranquillo e disteso, per farci tirare un sospiro di sollievo.

Armando Sanguini, ambasciatore di lungo corso e oggi impegnato all’Ispi, l’istituto che si occupa di politica internazionale, rileva, col giusto stupore, il paradosso che riempie l’Occidente sbandato e cinico.

Il terrorismo islamista copre oramai tutto il fronte della cattiveria umana. Come se detenesse il monopolio delle azioni suicide, delle stragi inopinate. È il re del Male e i suoi morti contano e pesano più di qualunque altro.

È il nemico eletto, l’odiatore per antonomasia, l’omicida della porta accanto.

Sviluppiamo l’ipocrisia e la cecità come anticorpo della nostra paura. Ricorriamo a questa falsa difesa immunitaria e tentiamo anche di crederci.

E invece?

E invece sta nascendo dentro le viscere della nostra società quel che possiamo definire come un terrorismo laico, svuotato di ogni passione o sviluppo ideologico.

Un terrorismo individualista, nichilista, di prossimità.

Lo stragista di Las Vegas ha compiuto un atto tipicamente terroristico mutuando dall’alfabeto dell’islam la costruzione dell’attentato. Perché l’ha fatto? Vattelappesca. Non lo sapremo mai. Depressione, odio, suggestione, puro spirito emulativo? Boh.

L’Occidente però non prevede il nemico senza una giusta causa.

Infatti non lo riconosce come nemico, lo riduce a caso psichiatrico. Ogni volta che qualcuno compie un atto omicida plurimo, o solo tentato, che si concluda o meno, si arrivi al suicidio dell’attentatore o solo alla sua fuga, le forze di sicurezza esaminano il curriculum e decretano: è islamista o non è. Esulta al Qaeda oppure no. L’inclusione o l’esclusione in questa speciale lista del Male assurge a convalida dell’agguato.

Come la cattiveria si mitigasse, e ogni sfregio sia alla dignità umana sia alla vita di noi stessi, subisse un fermo immagine, fosse una pausa della nostra condizione umana.Continue reading

Scrivi Parlamento, leggi ornamento. I deputati si arrendono: siamo inutili

Parlamento fa rima con ornamento, Rosatellum con Porcellum, deputati con nominati, fiducia con sfiducia. Tutti a Montecitorio, oggi è il 10 ottobre e alle 15 c’è l’appuntamento con la ghigliottina.

I CHIAMATI al patibolo sono attesi puntuali. In fila indiana prendono posto nell’aula e attendono di finire col capo sotto la lama. “Sono stato eletto a Mantova, e in Lombardia si prevede un disastro. Possibile che il mio seggio sparisca. E sa che penso? Che dopo dieci anni passati in Parlamento è anche venuto il tempo di badare all’azienda di famiglia. Tornarci adesso sarebbe utile a me e anche alle nostre attività. Mi piace tanto la politica, ma adesso bisogna scegliere e forse io ho già scelto”. Il suicidio di massa è stato pensato da Renzi per quelli come Matteo Colaninno, figlio di Roberto, imprenditore e finanziere. Fuori uno. Ottimo.

Alla buvette il beneventano Umberto Del Basso De Caro, che non si considera in esubero, spiega il problema: “La questione è semplice, il voto di fiducia è stato ideato per quelli che – temendo di finire anzitempo arrostiti nelle urne –potrebbero fare uno scherzetto al partito e votare, coperti dal segreto, contro la nuova legge elettorale”. Più che una legge è un jobs act elettorale, il Rosatellum prevede almeno un centinaio di licenziamenti senza giusta causa tra la Lombardia, il Veneto e la Sicilia, regioni dove il Pd ha ottenuto alle elezioni scorse – grazie al premio di maggioranza del Porcellum – una quota aggiuntiva di eletti. È una legge fatta per fregare i 5Stelle e gli scissionisti di sinistra, che però oggi paiono su di giri, veramente molto elettrici e in qualche modo ringalluzziti dallo scandalo in arrivo.Continue reading

Alberto Asor Rosa: “Non ci si può alleare col Pd, fa politiche di destra”

Il divorzio a sinistra è consequentia rerum. E anzi, “la cosa che non ho ancora capito è perché Giuliano Pisapia non abbia completato il mandato di sindaco di Milano. Resta un mistero la ragione dell’interruzione a metà di un lavoro che poteva dare i suoi frutti, perché si sia fatto rapire da una suggestione piuttosto che forgiare sul campo, e sottoporre alla verifica del buon governo quotidiano, la sua leadership”.

Professor Alberto Asor Rosa, appare piuttosto sollevato da questo divorzio.

L’idea che si potesse costruire una coalizione elettorale di centro sinistra con un protagonista decisivo quale è il segretario del Pd che ha attuato, e purtroppo ha in mente di continuare con politiche distintamente di centro destra, mi sembrava una pretesa che ambisse a sfidare le leggi della fisica.

Siamo a Newton e alla legge di gravità.

Non si trattava di diversità trascurabili ma proprio dell’idea comune, almeno quella, fondativa, condivisa, costituente. Mancavano le basi per qualunque discorso. Ma dai, suvvia, ma come si fa?

Ora Bersani e D’Alema sono di qua, Matteo Renzi di là e Giuliano Pisapia, il costruttore del ponte, rovinato sotto i piloni che avrebbero dovuto sorreggerlo.

Date le premesse non entusiasmanti della vigilia, rimane la presa d’atto di un divorzio ineluttabile.

E rimane l’idea che la sinistra non riesca che autoaffossarsi.Continue reading

Luigi Genovese: “Sì, sono un figlio di papà ma è Silvio il sole che sorge”

Io la ricordo piccino così. “Avevo dieci anni, forse mi ha visto mentre assistevo a qualche comizio di papà”.

Luigi Genovese è candidato a consigliere regionale in Sicilia, ha 21 anni ed è figlio del deputato Francantonio Genovese, è nipote del senatore Luigi Genovese, è pronipote del pluriministro Nino Gullotti.

Come ho più volte ribadito, qui non è questione di poltrone, ma di passione.

La ricordo piccino piccino ma già notevolmente appassionato.

A 15 anni l’ho sentita dentro, forte, tracimante la voglia di misurarmi con la realtà, i problemi della gente. La politica è servizio, e i Genovese sono per Messina una costante, un punto di riferimento.

La politica è servizio.

Ripetiamolo chiaro: i Genovese a Messina sono imprenditori al servizio della città. Non c’è un giorno che un messinese non chieda e non abbia una parola di conforto, un aiuto, un consiglio.

Suo padre ha ottenuto undici anni di reclusione per truffa, peculato e mi pare altro. Il servizio alla città non è purtroppo stato ritenuto all’altezza delle aspettative.

Ricordo solo che è una sentenza di primo grado. Lei avanzi pure le sue certezze, ma il diritto prevede un giudizio d’appello e, se del caso, quello di legittimità.Continue reading

Addio a Pierluigi Cappello, il poeta della gentilezza che usò la parola come riparo dal destino

La settimana scorsa mi ha dato in mano il suo addio alla vita, la bozza del libro che verrà: “Ogni giorno dal cielo alla notte”. Riflettendo sulle sue pene fisiche e sul significato della parola sopportazione, si accommiata così: “Non so darmi una risposta se non sostituendo il verbo “sopportazione” con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definitiva alla vita”.

 

Mi è venuto di dirgli – appena ci siamo salutati – la cosa più stupida: non arrenderti. Mi ha risposto con un sorriso, fingendo che non fosse una stupidaggine. Abbiamo subito parlato della cinciallegra che lo scovava ogni mattina dal ramo dell’ippocastano piantato appena oltre la finestra, in modo che dal suo letto lo potesse sorvegliare nella crescita, accudire ed esserne accudito. Il castagno d’India era il suo compagno di stanza e la cinciallegra la sua amica quotidiana. Li ritroverete nelle sue poesie, nell’anima di grafite della sua matita, sempre nei suoi pensieri. Pierluigi Cappello è stato il poeta della gentilezzaIl più giovane, forse il più grande poeta italiano contemporaneo. La sua parola gli usciva di bocca dolce e musicata. L’ha usata come riparo e viaggio perenne al destino che gli aveva inflitto l’immobilità per via di un incidente in moto da ragazzo. Midollo spinale in frantumi, sedia a rotelle.

Paolo, amico e medico di tutta la sua vita, mi ha avvertito sette giorni fa: la malattia corre veloce, non c’è più tempo. Alla lettura del messaggio ho ricordato le parole di Pierluigi, alcuni mesi fa, improvvise per me: “Paolo mi ha garantito che se tutto dovesse andare male non mi farà soffrire”. Così è stato.

Lui aveva nove anni, io diciannove quando ci fu la scossa. Lui di Chiusaforte, Friuli di confine, di montagna, io di Palomonte, venti chilometri a sud di Eboli. Estremo Nord e profondo Sud. Il ricordo del terremoto ci aveva uniti. Eravamo ambedue fratelli di sventura, figli dell’Italia delle terre tremule. Lui aveva conosciuto prima di me, il 6 maggio 1976, quel che la natura fece a Gemona, dove nacque, la città martire e nelle decine di altri paesi. Io quello del 23 novembre 1980, che colpì l’Irpinia. I nostri ricordi erano però identici, il mondo contadino e arcaico, il teatro quasi selvaggio e perduto della sciagura, il tempo della ricostruzione, la vita provvisoria e avara nei prefabbricati.

Non ci siamo lasciati. Ho letto tutte le sue poesie, e lui si è interessato al giornalismo. Mi chiedeva continuamente foto, ovunque fossi. Era il suo modo di viaggiare, di guardare il mondo. “Col tempo il letto si è trasformato in un tappeto volante”, scrive in “Questa libertà”, la sua autobiografia. Le raccolte delle poesie più belle le ritroverete in “Azzurro elementare” e “Stato di quiete”, edite da Rizzoli. Le filastrocche, pensate per i suoi adorati nipoti, in “Ogni goccia balla il tango”.

Pierluigi la settimana scorsa mi ha dato in mano il suo addio alla vita, la bozza del libro che verrà: “Ogni giorno dal cielo alla notte”. Riflettendo sulle sue pene fisiche e sul significato della parola sopportazione, si accommiata così: “Non so darmi una risposta se non sostituendo il verbo “sopportazione” con la locuzione “essere capaci di abbandonarsi”. Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola, in definitiva alla vita”. Poi ha chiesto a Fabiola, la sua compagna, di farmi ascoltare la sua Inniò, parola friulana bellissima che in italiano si tradurrebbe “in nessun dove”, cantata da Alice. E poi ci siamo abbracciati.

“Ci si sfila dal mondo così/come da un vestito stanco delle feste/quando viene la sera”.
Mandi Pierluigi.

da: Il Fatto Quotidiano, 1° ottobre 2017

ALFABETO – PAOLO CASARIN: “Per riconoscere i potenti in campo basta guardarli”

Il gioco è come la vita. C’è il più forte e il più debole.

E l’arbitro con chi sta?

“L’arbitro dovrebbe stare in mezzo, io mi sforzavo di stare in mezzo”.

Paolo Casarin è alto un metro e novanta, ed è ben piazzato di suo. Da perito chimico ha lavorato all’Eni, poi in banca. Ma per 28 anni è stato al centro del campo, per una decina al centro delle varie moviole. Oggi ha 77 anni e commenta in tv e sul Corriere della Sera il fallo tecnico e quello accidentale, l’intenzione e l’ostruzione, le carogne e le anime belle del calcio.

L’arbitro è venduto per principio.

Te ne dicono di tutti i colori ma ti caghi sotto solo prima di entrare in campo. Ricordo un collega peruviano che pregava stringendo il rosario in petto. Si affidava alla Madonna, credo anche alla mamma morta. Tremai un po’ anch’io quando ai mondiali di Spagna mi dettero una rogna: gli spagnoli contro i tedeschi. Tocca a te, disse il designatore.

Entri in campo e sbagli.

Io avevo imparato a memoria il libretto con le 17 regole del calcio. Quelle diciassette regolate. Oltre quelle c’era la mia discrezionalità.

E qui siamo all’arbitrio.

Se sei onesto, e generalmente lo sei, non ti fai prendere la mano. Io, per controllarmi, tenevo il fischietto in tasca in modo che servisse del tempo, qualche secondo, per estrarlo. Quel tempo mi serviva come riflessione cognitiva: sto facendo una cazzata oppure no?

Visto da fuori il campo di gioco sembra una piazza d’Italia. I potenti si riconoscono.

Si fanno riconoscere, sì. Li vedi da come ti guardano, dalla postura che hanno. I calciatori di nome stanno nelle squadre famose e quelle famose esigono rispetto.Continue reading

Francesco Rutelli: “Mattè, lascia il treno e cammina. E prima o poi torno anch’io… ”

“La politica deve ritrovare la fatica fisica. Più del treno io userei i piedi”.

Francesco Rutelli vorrebbe che Matteo Renzi per emendarsi agli occhi degli italiani intraprendesse per la campagna elettorale una versione ridotta ma nostrana della via Francigena. O anche pellegrino tra gli sfortunati, viandante tra gli ultimi.

Ti prendi qualche pernacchia e qualche fischio magari. Ma incontri gente vera, stringi mani vere e capisci chi sono gli italiani. Vada col treno dove vuole ma gli ultimi dieci chilometri li compia con le sue gambe.

Possibilmente senza truccare con le scorciatoie.

Il fisico ce l’ha, è giovane.

Il treno fu una sua invenzione ai tempi dell’Ulivo. Nel 2001 Rutelli, candidato premier, scelse le rotaie.

Forse fui consigliato da Paolo Gentiloni. La campagna elettorale è un viaggio dentro il Paese che vuoi governare. Il treno ci sembrò la scelta più coerente, anche la più ecologica. E poi a Roma avevamo investito tanto nella cura del ferro.

Berlusconi scelse la nave.

Ognuno porta con sé i simboli che ne segnano l’identità. La nave ti fa venire in mente sale da ballo e casinò. Era sintonizzato con la sua gente.

Nella stiva della nave, a ogni attracco, nominava i guerrieri della libertà sollevando lo spadone e poggiandolo simbolicamente sulla spalla di ciascuno.

Fa sorridere, eppure…Continue reading

ALFABETO – DAVIDE MARINO: “Il capitale naturale ci renderebbe ricchi ma lo ignoriamo”

Quanto conta, anzi quanto vale un bosco? E un costone di montagna, un prato, un ruscello d’acqua pulita, una spiaggia senza schifezze, una veduta? Il capitale naturale è l’unico tesoro che possediamo e al quale però togliamo il suo giusto prezzo, neghiamo il valore che possiede, evitiamo di pensare al suo costo economico se lo mandiamo in fumo”.

Davide Marino insegna all’Università del Molise Contabilità ambientale ed Estimo rurale. Da più tempo degli altri, con più caparbietà degli altri (e passione, e vigore) tiene il registro del capitale naturale. “Non è una sommatoria di risorse ma un combinato di fattori. Sono fattori di produzione e di benessere, indicatori di vitalità economica e civiltà, ma l’approccio collettivo è deludente, anzi disarmante”.

Un bosco quanto vale?

Vale naturalmente la sua legna. Ma nel capitale naturale gli addendi sono diversi: alla legna aggiunga il beneficio che ne trae l’aria, il valore anche economico della regolazione bioclimatica. Aggiunga il servizio essenziale di filtraggio dell’acqua piovana, e poi le ricadute sull’economia del turismo. E infine: quanto vale l’ispirazione che quella risorsa dà all’arte, alla filosofia, alle religioni. Ricorda il bosco di San Francesco? Ecco: un bosco è una ricchezza complessa e dal valore piuttosto alto.

Vale tanto, eppure per noi non conta nulla.

Il prezzo è il segnale della qualità di risorsa. Se è limitata esso sale.

Dovrebbe costare una fortuna allora.

Invece zero. Lei paga per passeggiare in montagna? Di certo però compra il biglietto per andare al cinema e vedere un film.

Non la stimiamo come indispensabile quella montagna e forse nemmeno quella passeggiata.

Facciamo di peggio. Se un bosco va a fuoco, e se vanno a fuoco decine di boschi, di costoni di montagne, lo Stato impiegherà mezzi e persone per spegnerli. L’attività antincendio ha sicuramente un costo e quel costo finisce alla voce attiva, è spesa pubblica. Aumentando gli incendi aumenta la spesa pubblica e dunque aumenta il Pil. E il Pil (prodotto interno lordo) è un indicatore di ricchezza.

Benvenuti nel mondo alla rovescia.

Più incendi, più allagamenti, più ricostruzioni, più emergenze fanno salire il Pil. Dunque inducono noi a ritenerci non solo più ricchi, ma anche più fortunati.

Com’è possibile che siamo giunti a questa primitiva condizione di obsolescenza mentale, questa forma di inettitudine logica?

Perché rispetto a trent’anni fa l’ambiente, il valore delle risorse naturali, ha perso centralità nelle coscienze individuali e nel dibattito pubblico. Trent’anni fa si costruì sotto la spinta di una pressione di massa una rete enorme di parchi e aree protette. Oggi quella consapevolezza diffusa si è rarefatta, è divenuta patrimonio di pochi.Continue reading

ALFABETO – ANDREA CARLINO: “Si ha più paura di essere contagiati che di ammalarsi”

Tutti i barconi di migranti sono pieni di scabbia. Mai un cardiopatico che scappi dalla fame e si ritrovi a bordo di un gommone” dice Andrea Carlino, storico della medicina all’Università di Ginevra.

Nell’età della paura, la gente sbarca insieme alla malattia che infetta.

Un sovraccarico di pathos dovuto al circuito mediatico che inanella singoli casi e – cucendoli uno a uno – fa assumere loro una stazza che non sempre rappresenta la giusta misura del problema.

Lei insegna ai medici la storia della medicina, il cursus honorum delle singole malattie.

Quelle contagiose sono sicuramente le più angoscianti, e prescindono dalla capacità di incidere sulla nostra condizione, sulla nostra abilità di resistervi e affrontarle.

Come in un sequel romanzato, con i barconi è iniziato il tam tam dell’allerta sanitaria.

La povertà riduce le difese e alimenta i danni fisici. L’Africa nera si associa naturalmente al tema del contagio. Da una condizione reale di malessere però si giunge, attraverso la propalazione di notizie cospicuamente sovradosate, all’incubo di stare per finire nel cerchio di fuoco della morte.

Due anni fa era ebola. L’Occidente vigilava nell’ansia sulle frontiere del contagio.

Ebola, sì. E prima come non ricordare l’Aids.

O la tubercolosi.

La tubercolosi ci riporta all’età della nostra migrazione, al secondo dopoguerra, alla nostra povertà non ancora superata. E la tubercolosi non aggrediva soltanto le case dei poveri, degli affamati, ma si dirigeva anche ai piani alti della società.

Ogni giorno ascoltiamo notizie circa malattie definitivamente debellate che, come un mostro marino, si riaffacciano sulle nostre coste grazie ai barconi.

Di malattie debellate ce n’è soltanto una ed è il vaiolo. C’è certezza che il virus sia azzerato. Ma il vaiolo, per dire, non è un sorvegliato speciale soltanto da un punto di vista sanitario. È divenuta un’arma militare. Le guerre si fanno non soltanto con i missili, ma anche con la chimica e i batteri. E depositi del virus si trovano negli Usa e in Russia.Continue reading