Orietta Berti: “Ho cantato a tutte le loro feste dell’Unità e ora mi denunciano”

È Orietta Berti, l’eterna capinera dell’Emilia.

Da Cavriago per la precisione.

Non Rosa Luxemburg.

Non conosco.

“Fin che la barca va” può essere interpretata anche come un inno ad Arcangela Cotugno, la prima donna brigantessa.

Guardi, per rispetto al suo giornale che in casa non manca mai, le ho risposto anche se sono appena tornata dal veterinario per il vaccino ai miei due cagnoni che ho tenuto in braccio e ora la mano mi duole da morire.

Orietta, tutto quel che poteva accadere è accaduto. Lei è dentro una grande polemica politica per via della dichiarazione di voto a favore di Grillo.

Ma ho risposto a una domanda! Avevo promesso a Beppe di votare il suo Movimento e lo farò. Ogni promessa è debito. Siamo grandi amici, abbiamo fatto tutta la stagione delle terme insieme.

In che senso le terme?

Chianciano, Montecatini, Fiuggi. Negli anni Settanta e Ottanta andavano fortissimo e noi facevamo un gran numero di serate e insieme ci dividevamo i compiti: chi faceva il primo e chi il secondo tempo dello spettacolo.

Lei ha promesso il suo voto.

Non nego che Di Maio mi piaccia anche.

Ecco, sul punto la questione è che la sua simpatia politica sembra più figlia dell’abbronzatura di Di Maio.

Io faccio la lampada e anche Renzi fa la lampada, come mi ha detto. Su questo punto abbiamo gusti simili. Non so lui, ma io tengo all’abbronzatura perché mi evita di dare il fondotinta ogni cinque minuti.

Perché l’abbronzatura di Di Maio è invece super?

Di Maio è quasi mulatto, un mulatto naturale, molto bello, molto a modo.

Ma ha detto che i troppo belli sono anche i meno credibili.

Lo ritengo una persona capace e onesta, voglioso di fare (in verità mi piace anche Di Battista).Continue reading

Lebole, l’uomo che vestì l’Italia (e Gelli)

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE

“Come si può dire di no a un uomo come lui?”. L’Italia di Carosello si innamorò dell’u omo “in Lebole” che era ancora il 1964. Che classe, e perfetto anche il suo cane, Lord per nome, e che fascino quest ’uomo di gran tessitura, l’attore Armando Francioli, modello perfetto che entrava ogni sera in casa. Tra i gomitoli di lana vennero trovate le liste della P2 giacché il patriarca Mario Lebole aveva l’azienda a Castiglion Fibocchi, sede di dislocazione delle energie creative e sovversive di Licio Gelli, che infatti fu suo grande amico e acquirente della sua dimora meravigliosa lassù in cima ad Arezzo, che poi prese il nome di villa Wanda.

Arezzo ha detto la sua anche nell’eleganza italiana. Il successo di Lebole che impegnò le sue forze per competere con un altro simbolo-fashion dell’epoca, quello Facis, altra sartoria e medesima eleganza borghese, accompagnò il successo della amata cambiale, il pagherò bancario, pegno puntualmente onorato. Gli Agnelli – per dire – hanno fatto fortuna grazie alle cambiali che gli italiani sottoscrivevano per rateizzare l’acquisto dell’agognata Seicento. E anche qui Arezzo contribuisce a suo modo al marchio Fiat perché l’autostrada del Sole, per mano ferrigna di Amintore Fanfani, aretino di Pieve di Santo Stefano, vide il suo tracciato fare, all’imbocco della vallata, una piega considerevole fino alla periferia di Arezzo e poi far ritorno alla sua originale traiettoria. Fanfani il gran democristiano d’amor perduto per la sua terra, e gli aretini devoti non dimenticano nemmeno oggi. Cosa sarebbe Arezzo senza l’autostrada? E senza la Lebole? Purtroppo nella storia della famiglia (e della massoneria) bisogna iscrivere il luttuoso evento del suicidio del patriarca. Era il 1983 quando Mario Lebole si tolse la vita. Fossero gli affari, le trame, le inchieste o solo libero e disperato arbitrio, non si sa.

Massoni o meno gli aretini hanno conosciuto da contadini la stagione della mezzadria e poi da operai quella dell’industrializzazione. Lo stabilimento Lebole, per dire, dava onore e ristoro a tremila addetti. Ma anche la falegnameria era un settore di vasta tradizione. E trés chic erano le cucine Del Tongo, che l’Italia invidiava. Sempre insieme Del Tongo e Arezzo, nella buona come nella cattiva sorte.

Successe che il 18 marzo del 1980 davanti scuola, davanti agli occhi di due suoi compagni, l’Anonima sarda rapisse il piccolo Francesco Del Tongo. Fu liberato solo a giugno, il 15 del mese, e le trattative vennero condotte da due preti, don Franco Bindi e don Ivano Marconi. Ricordò il primo: “Ci dicevano dove andare, e spesso anche a 450 chilometri di distanza. Giravamo per ore, in lungo e in largo. La mia piccola Fiat 126, per fortuna non stramazzò dalla fatica”.

Da: Il Fatto quotidiano, 28 dicembre 2017   

Arezzo: “La mecca per arabi e russi che vogliono vivere a 24 carati”

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE

Mille e ventisei aziende. Tutto l’oro che luccica è allineato all’imbocco delle quattro vallate che aprono la strada per Arezzo. Lingotti, lingotti e lingotti. Oro puro, smagliato, svuotato, riempito. Fatto a ciondolo o a corno. Oro sonante e pesante per l’emiro insaziabile, oro da dote alla figlia del capo tribù africano, del guerrigliero salito di grado, del mercante chiamato al dominio.

Oro per i dittatori africani, per i commercianti messicani, per le figlie da maritare, per i traffici da concordare. Oro di tutti i carati, per qualunque occasione. Un miliardo e 800 milioni è il fatturato complessivo del primo distretto orafo d’Europa. “Sapesse cosa ci chiedono: catenone da esibire sui petti villosi, e noi abbiamo imparato a realizzarle. Anelli a forma di farfallone che coprono l’intero dito e nascondono sotto la tessitura metà della mano. E noi, pronti, con le nostre macchine. Anche questa è innovazione”, dice Giordana Giordini, tra le più abili a riempire l’oro di ogni vizio, ogni forma, ogni pur scellerata dimensione.

Titolare dell’omonimo marchio e presidente degli orafi toscani di Confindustria, conosce gli affari e anche il loro cattivo sapore. “L’oro si vende a chi è ricco, e i soldi non hanno odore. Affascina particolarmente quella fetta di mondo meno sviluppata. L’oro si vende ai libici, fai buoni affari anche se vai in Messico, prima si stazionava a Los Angeles per la ricca società del business cinematografico, ora non più. L’oro va fortissimo tra gli arabi. Devi saperci fare, stare attento a come ti comporti. Una donna poi assume un rischio in più: deve piegare la diffidenza, stare al livello delle parole di uomini che non conoscono la parità di genere. Non devi farti mettere mai sotto”.

 

LINGOTTI di ogni misura e anelli, meglio se esagerati. “Facciamo anche catenone, molto vistose e kitsch, il mercato latino-americano e quello africano le cerca con voluttà e si sazia esibendole al collo. Per fortuna in Libia la guerra sta finendo e gli acquisti infatti riprendono vigore. L’unico problema che abbiamo è che continuano a voler pagare in contanti. Si presentano con le valigie piene e buttano i dollari sul tavolo. Ti tocca chiamare il direttore della banca, spiegargli, fargli capire, tenere testa alle leggi italiane sulla tracciabilità dei soldi. Le sembra un problema da poco?”.

Oro dunque per ogni abbuffo, per mani ingorde e stomaci pieni di pelo. Un miliardo e 800 milioni di euro vale il distretto più importante d’Europa, che negli anni della crisi ha ridotto la sua prestanza ma non il carisma. Una volta la nuvola teneva Arezzo sotto assedio da carati e briciole di pietre preziose si aspiravano persino all’imbrunire, tra gli scarti della lavorazione, rassettando l’azienda. Se ne faceva un mucchietto e si metteva da parte. Mucchio a mucchio diventava oro nero, e la polvere – trasportata in banca – si trasformava in denaro contante e completamente esentasse. Che anni quegli anni ma – se permettete – anche questi. Tanto che la maggiore preoccupazione di Maria Elena Boschi, in qualità di “deputato del territorio”, è stata che tutto quell’oro, che poi è effettivamente energia vitale per l’industria, a causa della disfatta di Etruria, non si perdesse nel metallo di uguale fattura, ma di minore prestigio, di Vicenza, sede della banca, che nei sogni o negli incubi, sembrava dovesse fare un sol boccone della cassaforte aretina.Continue reading

La grande purga: prefetto e prete, nessuno resiste all’ira dei Boschi

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE

Il Questore, il Prefetto, il comandante dei Carabinieri e perfino il parroco. Tutti mandati via nella stessa coincidenza astrale che non cade quando Gelli va a raggiungere il suo Oriente Eterno piuttosto subito dopo quello schiavardar d’insegne. Frana Etruria e i correntisti, risucchiati nella voragine dei buchi di bilancio, s’adunano nei pullman alla volta di Laterina, la frazione aretina dove abita, opera e fa presepe la famiglia Boschi. Eccoli: Maria Elena, a suo tempo ministro delle Riforme, poi Pier Luigi, papà e membro del Cda di Etruria nominato 75 giorni dopo la nomina della figlia nel governo di Matteo Renzi, e poi ancora Pier Francesco, fratello, già arruolato nell’istituto di credito. Succede che alla protesta delle “vittime del salva banche”, il 28 febbraio 2016, un autobus con a bordo i manifestanti va a fermarsi sotto casa Boschi e l’autista, senza avere consapevolezza, lì si ferma e fa scendere i passeggeri. Sono attrezzati tutti di cartelli, megafoni e fischietti e tutto capita mentre la Boschi madre, ovvero la signora Stefania Agresti – è l’elemento alpha di cotanta schiatta –torna dalla spesa con tanto di sporte in mano. Quel che vede è insopportabile. Con un’occhiataccia gela l’agente di guardia fermo sul marciapiede, quindi prende per l’uscio e chiama al telefono la figlia: “A momenti ci entrano in casa”. La povera ragazza, nel suo ufficio a Largo Chigi, a Roma, raccoglie lo sfogo della mamma e – ben caricata – attraversa la piazza, sale a Palazzo, spalanca la porta della stanza e sibila a Matteo Renzi, il premier: “Ci stanno entrando in casa”. Cala il silenzio, Matteo –in camicia –fa come per indossare il giubbino di Fonzie, e cioè riprende le carte su cui sta lavorando e la liquida: “Sei ministro, sì?; chiamati Angelino Alfano e discuti con lui la questione”. La porta si chiude: il ministro delle Riforme alza il telefono e se la vede con Alfano. La telefonata annuncia il carosello. Il prefetto, il questore, il comandante dei Carabinieri, il parroco all’inizio dell’autunno del 2016 – uno dietro l’altro – lasciano la città.

Da: Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2017

ETRURIA ADDIO AREZZO DOPO IL CRAC

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati ad Arezzo

Come gli scatoloni di New York della Lehman Brothers, così le insegne di Banca Etruria.

I rampanti trader cacciati dalla fallita banca d’affari sciamano lungo la Settima strada. È una giornata di settembre del 2008 e quell’esodo di colletti bianchi segna una metropoli e un mondo.

E così ad Arezzo. Gli operai, sulle scale, staccano dal muro della sede storica le insegne di Etruria ed è finita. Nessuno si fa vedere nei paraggi perché tutto ciò che è solido, per dirla con Karl Marx, “s’è dissolto nell’aria”.

UNA CITTÀ E UN’EPOCA, in quella scena, sono trascinate in un contrappasso se si pensa che l’istituto di credito toscano nato grazie alla Massoneria – “popolare per davvero”, recitava lo slogan – trovi morte per mano santa, con Elio Faralli, lo storico presidente, cacciato in una giornata di votazioni. La banca oggi al centro della polemica politica, fondata nel gennaio 1882 per volontà della laica e atea muratoria – i venerabili della Loggia Cairoli – si schianta coi piissimi amministratori, tutti cattolici, giammai tegolati nelle officine delle Obbedienze (se non le favoleggiate 42, o 24, quantomeno le tre riconosciute: Regolari, Palazzo Giustiniani e Piazza del Gesù). Una data, il 6 maggio 2014, marchia il tonfo. Quel giorno, quando l’Etruria è in agonia al punto che il democristiano Giuseppe Fornasari consegna le spoglie della presidenza a Lorenzo Rosi nel tentativo non riuscito di praticare la dolce morte. Etruria infatti fu aperta ai lucrosi affari da Faralli, classe 1922, che dopo il suo ventennio d’oro iniziarono a diradarsi quando nel 2005 accolse nel board il Fornasari, già sottosegretario all’Agricoltura.Continue reading

Paolo Tancredi: “Io cumulo, raccolgo, aggrego: firmo emendamenti per tutti”

Come cinghiali affamati.

“Affamati di sicuro”.

Vi scaraventate sulla legge di bilancio e la sbranate, la riducete a brandelli con i vostri emendamenti. Un pezzettino di soldi li trasportate di qua, un altro di là.

Un parlamentare sa che la finanziaria è l’unico strumento che gli riconosce un po’ di ruolo, che gli permette di fare qualcosa per il proprio territorio, di esibire la sua identità e se permette anche un po’ di autorevolezza.

L’influencer Paolo Tancredi, deputato di Teramo, intimo di Angelino Alfano, gran tessitore di mance pre elettorali. Se ne contano duecento che portano la sua firma.

Io sono l’unico del mio gruppo in commissione. È chiaro che raccolgo, cumulo, faccio il collettore. Firmo emendamenti anche non miei.

Firma anche emendamenti orribili?

Orribili è poco. Ricordo che mi ritrovai firmatario di una misura che stabiliva il condono edilizio nel territorio del Parco nazionale dell’Abruzzo. Ma si può?

Ma si può dovrei domandarglielo io.

No che non si può. Non l’avevo letto, avevo firmato alla cieca. Quando me ne accorsi revocai l’adesione.

Firmare alla cieca è un atto di assoluta devozione.

È l’assillo che ti prende nei giorni della Finanziaria. In dieci giorni, quest’anno solo una settimana, devi tentare di imbucare ogni possibile misura e in più devi sostenere gli altri colleghi del gruppo a imbucare le loro.

Lei è un grande imbucatore.

Sono provvidenze minime, a sostegno di eventi anche trascurabili, se misurati col metro nazionale, ma che per le realtà locali sono fondamentali.

Lei per esempio cosa ha strappato di cui gloriarsi?

Un finanziamento per la coppa “Interamnia” di Teramo. Detta così sembra una stupidaggine, ma nella mia città l’iniziativa è sentita, partecipata. E un parlamentare che ascolta la propria gente che fa?

Che fa?

Il diavolo a quattro.

Le bande musicali sono particolarmente coccolate.Continue reading

Maddalena inciampa sui sordi

Cos’è l’uguaglianza? Maddalena Crippa, che pure è un’attrice di sperimentato talento, domenica sera ha dato prova di non saperlo. Impegnata al Teatro Nazionale nell’ultima replica del Riccardo II, ha fatto sloggiare dalle loro postazioni le traduttrici del linguaggio dei segni, impegnate a rendere possibile ai non udenti presenti in sala di seguire l’opera. “Occupavano il mio campo visivo”, ha spiegato. Arrecavano cioè disturbo al suo talento. Così mostrando di disprezzare il valore civile di quel disturbo. La Crippa ha dimenticato che stava esibendosi in un luogo che come claim ha appunto “il teatro uguale per tutti”. Bene hanno fatto il presidente e il direttore del teatro a ricordarglielo e a chiedere scusa agli spettatori non udenti che però hanno visto tutto, forse troppo.

da: Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2017

Ha esibito il “porno potere”: si dimetta

Mattia Palazzi deve dimettersi perché ritiene che a Mantova, dove è sindaco, nessuno possa permettersi di fare qualcosa senza prima chiedere il suo consenso. È la privatizzazione dell’ufficio pubblico a rendere insostenibile la sua permanenza a capo dell’amministrazione comunale non un giudizio universale sulla sua moralità. Il sesso riduce a gossip una vicenda padronale, e l’inchiesta della Procura sui messaggini attraverso i quali Palazzi chiedeva alla vicepresidente dell’Associazione “Mantua me genuit” di soddisfare le sue voglie per sganciare i 2.000 euro di patronage pubblico, viene derubricata, per mera utilità politica, in una forma di devianza giudiziaria. Un effetto ottico voluto, che fa ritenere Palazzi ingiustamente accusato. Invece non sono in discussione le sue virtù private, qui è venuto alla luce l’intramontabile vizio pubblico di pretendere una dazione (sesso, soldi o altra utilità in questo caso pari sono) per concedere un diritto di cui l’eletto è custode e garante, non proprietario. Questo fa divenire insopportabile la vicenda, e ancora di più perché il protagonista è un quarantenne che promuove la nuova politica. Nuova in che senso? Non bastano i cantieri, che pure sono molti grazie anche ai finanziamenti extra (18 milioni di euro) che la sua fede renziana ha traghettato in città. Perché nel buio della coscienza ha recuperato il più antico e certo vergognoso vizio del potere: trattare il bene comune come proprietà personale; i soldi di tutti come portafoglio privato; e le scelte conseguenti: tu hai il finanziamento, tu no. Il sesso in questo caso è un elemento addirittura secondario, i messaggini hot scambiati con la vicepresidente dell’associazione, roba da ridere. Qui il vizio, la vera pornografia, è il potere esercitato in questo modo.

da: ilfattoquotidiano.it

La solitudine di Renzi

L’abbandono del ring da parte di Giuliano Pisapia giunge quasi alla stessa ora di un’altra significativa defezione: quella di Angelino Alfano, che ha deciso di non ricandidarsi. Le due decisioni, così apparentemente distanti, si tengono insieme e producono una prima verità: Matteo Renzi è destinato alla solitudine e il suo partito restituisce l’immagine di una formazione respingente. Perdere nello stesso giorno la sponda di sinistra e quella di destra significa che il declino elettorale del Pd nelle prossime settimane si accentuerà ancora di più.
Vuol dire che la capacità di manovra e di attrarre consensi da parte di Liberi e uguali, la neonata formazione di sinistra, è così netta e visibile da aver già prodotto una resa tra i suoi possibili competitori, quelli appunto del Campo progressista di Pisapia. Che infine la forza propulsiva del centrodestra sarà ancora più marcata perché, com’è prevedibile, raccoglierà le spoglie del partito di Alfano, Alternativa popolare, già sul punto di sfasciarsi di fronte al quesito: tornare ad Arcore col capo coperto di cenere ma con la prospettiva di tornare a vincere, oppure issare la bandiera dell’orgoglio e cascare a terra insieme al suo Pd?
C’è una quarta considerazione che bisogna fare: il Pd si avvia a essere la terza forza del Paese, dietro il centrodestra unito e ingrassato dai nuovi arrivi, e i Cinquestelle. E sebbene Renzi abbia i numeri per continuare ad avere la leadership, il suo partito, soprattutto i suoi eletti, quanta voglia hanno del martirio?

da: IlFattoQuotidiano.it / BLOG di Antonello Caporale

Giorgia Meloni: “Alemanno & C. leghisti? Se è contento Salvini…”

“Tutti i giorni penso di rompere e presentarmi da sola alle elezioni, scegliere la mia strada, coltivare l’identità del mio partito, la pulizia, i valori veri. Una grande battaglia nel segno dell’unico valore fondante che tiene uniti tutti: la Patria”.

Quando va a letto Giorgia Meloni sogna la libertà. Poi si sveglia, fa due conti e ritorna a far la brava scolara del centrodestra.

Il mio unico timore sa qual è? Il voto utile.

Sbatté la porta di palazzo Grazioli perché Berlusconi non le aveva concesso le primarie. Dopo qualche anno si ritrova Berlusconi lì dove l’aveva lasciato: un metro e mezzo avanti a lei.

Sbattei la porta soprattutto perché ero contro l’idea di dare il sostegno al governo Monti. E col senno di poi devo dire che ne sono orgogliosa.

Però pensava pure che Berlusconi fosse finito.

È vero, l’ho pensato. Ho ritenuto conclusa la sua storia politica.

E invece… ora resta col dilemma: andare da sola col rischio di non racimolare i voti che contano oppure stare dentro la coalizione ma perdersi nella nebbia.

Con la chiamata alle armi del voto utile ho perso Roma. Chi era contro il Pd, stragrande maggioranza, ha votato Raggi. E chi non sopportava i Cinque Stelle ha digerito Giachetti. Al secondo turno sarei dovuta andare io, e invece: al lupo! al lupo!

Ma oggi questo centrodestra sembra una fake news!

Capisco la sua obiezione. È il risultato della legge elettorale che non premia la coalizione ma i singoli partiti: quindi ciascuno batte sulle differenze, scava, segna il territorio. Eppure le possibilità che si possa vincere ci sono tutte. E sono alte.

Berlusconi fa il solito partito-omnibus, Salvini il fascio-leghista e lei la Bella Addormentata nel bosco.

Mi hanno detto di peggio: sarei Alice nel paese delle meraviglie.Continue reading