De Luca jr è fritto: a Sud Salerno guida la rivolta al ‘sistema

“Insopportabile”. La giovane barista salernitana riduce la questione politica a puro sentimento: Salerno non ne poteva più di De Luca. Troppo Vicienz, che fino a ieri era “patr a me” (“Vincenzo è il mio papà”, dicevano i fedelissimi) non si è accorto di aver esondato. La sua famiglia ha allagato la città e la regione e Piero, il giovane avvocato esperto di diritto lussemburghese, il prediletto malgrado un processo per bancarotta, rotola nel fiume di un rancore improvviso e definitivo. Terzo su 4 contendenti dell’uninominale, una percentuale questa sì insopportabile – 23,13 – per un cognome che teneva incollato sul suo petto fino all’80% dei voti. È la svolta di Salerno. La seconda dopo quella del secolo scorso. È sempre Salerno che annuncia la rivolta del Sud ribelle al sistema. Oggi e così improvvisamente rinunzia al padrinaggio del Pd e rifiuta anzi brucia la tessera forzista con la quale in ben tre tornate politiche ha battuto cassa.

LA CITTÀ DEL FEUDO, la roccaforte con la quale il papà ha controllato e governato municipio e aziende pubbliche, mix perfetto per balzare in Regione e da qui pompare soldi (un miliardo di euro in arrivo!) e irrobustire i canali irrigui del consenso, oggi è zuppa di pioggia. Ora Salerno, e con lei il sud volge lo sguardo ai 5stelle a cui tributa una messe spropositata di voti, e lo fa più per rancore con quegli altri, tutti gli altri, che per convinzione. Il candidato di Di Maio, Nicola Provenza, un borghese di solide tradizioni democristiane, strapazza Piero, il predestinato, e lo doppia nel consenso. La fiumana spalanca la città al nemico più odiato, Giggino come lo chiama per sbeffeggiarlo De Luca Papà. Ed è questa forse la vergogna più insopportabile. Oggi Salerno è muta e Piero ha chiuso il portone della sede, e deve sperare nel paracadute del proporzionale (primo in lista a Caserta) per un ripescaggio in extremis. Pare un’azione di bonifica territoriale che qui ha il suo centro di gravità permanente, l’espressione più potente di cosa sia un potere efficiente ma minuziosamente clientelare, familistico.Continue reading

Bollini, flash e tette per Silvio: voto stanco (e caos) in Italia

 

I vecchi. Alle sette e mezza, nella scuola che si affaccia sul Colosseo e che dà le spalle a quella che fu la casa di Claudio Scajola, alias Sciaboletta, l’ex ministro dell’Interno di Berlusconi che ora ha candidato suo figlio perché così fan tutti, c’è una piccola coda di capelli bianchi e bastoni. Votano sempre per primi gli anziani, i primi a svegliarsi, e i primi – insieme ai netturbini – a scendere in strada. “Fermo, non si può più!”. Il presidente di seggio afferra la mano del signore che stava per imbucare la scheda. Manco una gioia e questa forse era l’unica per noi elettori: il gesto fisico, volersi contare e soprattutto farsi contare.

Questa volta sembra invece che il voto non conti più. “Tu che dici?” “Te devo di’ pure?”. Il colloquio si spegne prima di iniziare: due berretti, lui col manifesto sotto il braccio (cercavo il Fatto ma l’edicolante ha sbagliato, e oggi me tocca leggere er manifesto), l’altro con la busta di Conad: latte, pane, tre mele Melinda. Una signora di passaggio: “Non mi vergogno a di’ che ho votato Pd”. Sembra infatti dalla circospezione con la quale in tanti volgono lo sguardo sul simbolo del partito di Renzi alla parete, che il Pd si sia trasformato in una ridotta di viziosi e non fa chic farlo sapere in giro.Continue reading

Emilio Giannelli: “Sono un vignettista vintage, forse voto Potere al Popolo”

L’odio da sentimento è divenuto mestiere. E si ringhia piuttosto spesso e anche per futili motivi. Nella contumelia ritroviamo lo spirito del tempo. Cosicché far ridere, o soltanto sorridere, pare come un fuor d’opera. Emilio Giannelli è il capo dei vignettisti british, il suo lapis è appuntito ma non avvelenato. Si erge, ogni giorno, a ermeneuta del fatto più rilevante che il Corriere della Sera sceglie per i suoi lettori. “La vignetta si guasta se si bagna nel rancore. Mi faccio bastare le parole del soggetto da proporre. Sono le sue parole che divengono perfette per la caricatura. Gli faccio la barba col suo stesso pennello”.

Sono nati gli odiatori, nessuno più ha voglia di sorridere.

Vero, siamo divenuti noi satirici un’enclave nella narrazione quotidiana della realtà. Ma sa, la forza dell’abitudine e anche un qualche riscontro di pubblico ancora lo conserviamo.

Giannelli, Altan, Vauro, Ellekappa, Forattini, Disegni. Fare ridere (e fare pensare) è un’esclusiva dell’età matura?

Ha trovato il modo di farmi dire che ho 82 anni e che questo mestiere non l’ho scelto, si è impossessato di me. Come sa lavoravo, felicemente, all’ufficio legale di Monte dei Paschi.

Da buon senese…

Da buon senese. Ed è vero che in qualche modo anche nel mirabile mondo dei dissacratori c’è la tendenza a conservare la seggiola invece che far posto ai giovani talenti. Un po’ siamo noi i colpevoli, mia moglie ancora mi ripete che senza il lapis sarei un uomo finito. Un po’ sono gli editori e i direttori dei giornali. La maturità coincide con la morigeratezza. E poi il nome fa tanto: sposta l’attenzione, nel caso la vignetta provochi casino, dalla testata all’autore. Il fattaccio ipotetico è figlio del tizio che disegna non del giornale che lo ospita. Terzo: i giovanotti dovrebbero avere più forza nel proporsi, più coraggio nell’associarsi ed editare fogli satirici. Lo so che non è semplice, ma un’altra strada non c’è.

Una vignetta di Giannelli odora sempre di Novecento. I suoi personaggi li veste e li fa viaggiare come se si fosse al tempo del boom economico. I meravigliosi anni Sessanta.

Sono vintage. D’altronde l’anagrafe parla chiaro.Continue reading

Lenghane, Dialla e gli altri alla battaglia dei “pacchi”

Questa è la storia di quaranta maschi neri e di una donna bianca, una storia di sfruttamento. Loro sono facchini e lei è il caporale che li costringe per mesi a lavorare a nero, promettendogli ogni settimana un contratto che non arriva mai. Loro si spezzano la schiena per dieci e anche dodici ore al giorno, “Non tutte pagate, certe sì, certe no”, caricando e scaricando “colli” giorno e notte dai camion al magazzino della Gls di Piacenza e dal magazzino ai camion: ante di armadi, poltrone, robot da cucina da smistare ai negozi e ai centri commerciali. Hanno tutti tra i 20 e 28 anni, lavorano a nero per una cooperativa “falsa”, quelle dove i soci lavoratori sono in realtà lavoratori sfruttati dal caporale che li chiama per fare il lavoro che i facchini più anziani, i quarantenni assunti con i contratto della logistica, non sanno fare più perché hanno le ossa spezzate. Sono i compagni di Abd El Salam, il facchino ucciso il 14 settembre del 2016 durante un picchetto ai cancelli della Gls, mentre tentava di bloccare le merci in uscita dal magazzino. Picchettava con gli altri perché Gls non rispettava gli accordi che aveva sottoscritto promettendo di stabilizzare i precari. Abd El Salam aveva il contratto a tempo indeterminato, ma lottava con gli altri perché, come ripetono i suoi colleghi: “Tocchi uno, tocchi tutti”.

A DENUNCIARE non sono in quaranta ma 29, perché qualcuno occorre che nel processo faccia il testimone e qualcun altro è andato via, a inseguire da qualche altra parte un contratto regolare, per non perdere il permesso di soggiorno. Quelli che hanno denunciato sono stati sbattuti fuori. Sono arrivati in Italia sui gommoni fuggendo dalla guerra, dalla fame e dalle torture e per questo sanno distinguere i perseguitati dai loro aguzzini: “Continueremo a fermare i camion delle merci con i nostri corpi, fino a quando non ci metteranno in regola. Non abbiamo paura dei padroni, ma non picchiamo i crumiri che vengono assunti a chiamata quando noi picchettiamo, perché non sono loro i nostri nemici di classe, loro sono vittime del ricatto del padrone”. Per mesi hanno vissuto tra l’incudine e il martello. L’incudine era denunciare e ritrovarsi l’Agenzia delle entrate a chiedere le tasse non versate: “Farlo nella speranza però di ottenere giustizia, prima o poi, di ottenere il contratto”, sempre che nel frattempo la cooperativa non fallisca (“Non venga fatta fallire”, dice Roberto Montanari, dell’Unione Sindacale di Base) e i lavoratori non si ritrovino peggio di prima, “con l’azienda che non ha mai versato i contributi per la loro pensione e le tasse da pagare per i mesi lavorati a nero”. Il martello è non denunciare e perdere il permesso di soggiorno, il diritto di restare nella Repubblica fondata sul lavoro, un diritto riconosciuto solo allo straniero che ha un lavoro e non a quello costretto da un italiano a lavorare a nero. Così aspettano a denunciare, con “lei” che promette che il contratto arriverà presto. Ora che si sono decisi, hanno portato in questura gli audio delle telefonate. Partono le indagini, per questo non posso fare il nome di “lei”, ma faccio la cosa che sempre vorrei fare quando racconto le storie dei lavoratori che lottano per i loro diritti: scrivere il loro nome e cognome. Non vogliono quasi mai, o non possono. Temono ritorsioni, o si vergognano di quello che hanno subito. Lenghane Adive, 24 anni, dal Burkina Faso. Coulibaly Souleymane, 26 anni, dalla Costa d’Avorio. Coulibaly Assamado, 23 anni, dalla Costa d’Avorio. C. Bansé Ousmane, 27 anni, dal Burkina Faso. Kabore Ibrahim, 25 anni, dal Burkina Faso. Coulibaly Alassane, 27 anni, dal Mali. Dialla Mamadou Hassimiou, 33 anni, dalla Guinea. Diakite Saydou, 22 anni, dal Mali. Loro sono orgogliosi del proprio nome e cognome scritto sul giornale italiano e lotteranno per vederlo scritto sul contratto che gli spetta.

Da: Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2018

“Il nostro Stato Sociale: selfie, amore e art. 18. Zero canzoni-comizio”

Nel Palazzo la sinistra si ammoscia, nel Paese si mimetizza, nelle piazze prende vergogna, o si perde in punte disperate: per esempio Antonio Gramsci ridotto a scenografia di un comizio di Pierferdinando (Pierfurby) Casini. Nessuno ci pensa ma cinque ragazzi, trentenni e bolognesi, hanno promosso il ravvedimento operoso almeno delle note, aperto la strada al socialismo musicale e ridato dignità e popolarità a una coppia di parole che oggi vive nella sfortuna: Lo Stato Sociale. “Diciamo sempre la stessa cosa: occupiamo un luogo che altri hanno lasciato sguarnito. Quando abbiamo dovuto pensare a un nome, ci siamo chiesti: cosa manca all’Italia? Lo Stato Sociale! Allora cazzo ci siamo noi”.

SORRIDENTI, estrosi, teatrali e soprattutto intonati. Albi, Checcho, Bobo, Lodo e Carota, tutti nati tra l’84 e l’86, con le idee ben piantate in testa, hanno dato vita alla sinistra canterina, facendo a brandelli ogni clichè. Da veri transformers producono l’arte tra evoluzioni buffonesche, alcune bambinesche, illuminate memorie marxiste e sentimentalismi pop. A Sanremo sono stati travolgenti con quella vita in vacanza, la vecchia che balla eccetera eccetera e adesso raccolgono i frutti. Milioni di visualizzazioni su youtube, fanciulle stregate, sarabanda di incontri per il firma copie, lo strumento del proselitismo. “Vedi oggi? Siamo a Pescara, novanta minuti di ritardo a causa di un treno pigro. Salgono a gruppi, noi cantiamo tre canzoni, poi le firme, poi i selfies, poi l’altro gruppo, altre tre canzoni…”. Cento alla volta, per cinque volte e quasi tutti i giorni e quasi in tutta Italia.Continue reading

Dallo “Squalo” allo “Squaletto”: “Volevano annientarci? Eccoci”

Tutto torna. Anche l’anima di Vittorio Sbardella, in arte lo Squalo o – per i puristi – Pompeo Magno. Gli anni Ottanta li ha trascorsi a mangiarsi Roma a mezzadria con Paris Dell’Unto, socialista, er Roscio per gli amici. È domenica, la pioggia è fastidiosa, la location è tres chic: collina Fleming, maxi-gazebo con vista. Pietro Sbardella, figlio di Vittorio, dunque Squaletto, ci chiama a raccolta. Serve l’ultimo sforzo per l’ultimo miglio: dobbiamo condurlo al consiglio regionale del Lazio per il centrodestra (“Noi con l’Italia) dove nel recente passato ha dato prova di impegno. Pietro non ha le manone del suo papà e neanche le mascelle quadrate. Non fuma il sigaro, non è stato boxeur. Smilzo, timido, con gli occhialini.

“Non ho capito perché dobbiamo parlare di papà se me ne sono vergognato, anzi stravedevo per lui. Ho incollato i manifesti, ho iniziato a far politica da giovanissimo, non mi ha mai incoraggiato ma mai ha detto una parola contro”.

C’è mamma Nuccia, che negli anni d’oro ha movimentato i conti correnti familiari con la sua Promo Group, attività di relazioni pubbliche, e incentivato il portafogli dell’impresa di assicurazioni.

“Sa che mi dicono? Ci fosse ancora suo marito! Vittorio è rimpianto perché in qualche modo ha fatto sempre del bene, ha aiutato tanta gente, è stato sempre a disposizione”

Pietro: “Mamma, la storia la fanno i vincitori”.

Nuccia: “Tutte le cattiverie sul suo conto mi hanno fatto male, ma la politica è crudele: ora sei sullo scranno ora sei per terra. Vittorio se n’è andato da tanto tempo, e io ormai ho perso interesse. Sono qua solo perché c’è Pietro”.

Pietro: “Non ho mai avuto problemi per il mio cognome. In genere mi scambiano per il figlio dell’ex arbitro di calcio Sbardella, che qui a Roma è molto conosciuto. Di papà, nessuno dice niente”.

Maria Antonietta, sorella di Pietro: “Mai interessata a queste cose, bastava uno in famiglia. Con mio fratello sono due”.Continue reading

Viceconte vs. Benedetto. “Salto di partito? Qui in Lucania non si chiede l’esame del sangue”

Nella Lucania di Rocco Scotellaro ogni vizio si fa virtù. La vita scorre lenta, le soddisfazioni sono rare, la noia è sempre in agguato cosicché quest’anno i latifondisti del potere locale (famiglia Pittella da una parte, berlusconiani dall’a ltra) hanno scelto di provare a sperimentare la proprietà commutativa. Se cambi l’ordine dei fattori il risultato resta immutato. La campagna elettorale, spassosissima già di suo, ha preso nuovo brio e vigore con l’entrata in campo dei contendenti. Il centrosinistra schiera infatti Guido Viceconte, già pluri-sottosegretario di Berlusconi. Il centrodestra gli risponde con l’imprenditore Nicola Benedetto, tra i più ricchi di Basilicata, che qualche anno fa voleva fare il presidente della Regione col centrosinistra. Scambisti, scambiati, naturalmente ubiqui.

Viceconte: Guardi, sto riscoprendo la bellezza della campagna elettorale. Lei mi deve credere, sto andando una favola.

Benedetto: Sarei stato disposto a candidarmi anche col centrosinistra perché ho le idee chiare e sono un uomo del fare. Centoquaranta dipendenti nell’azienda di profilati d’alluminio e un magnifico albergo a Matera, nel quale se vorrà lei sarà mio ospite.

Viceconte: Non ho sentito uno, dico uno, che abbia chiesto del mio passato.

Benedetto: Chi mi conosce sa che per me la politica è fare e fare bene. Sono stato assessore regionale nel centro sinistra, e come ripeto spesso, non sarà il colore o la soglia di questo o quello a fermarmi. Credo veramente e fermamente di vincere, ma il mio competitore non è Viceconte che sta con le ruote a terra.

Viceconte: Passo dopo passo, casa dopo casa, riscopro il piacere del contatto umano e ritrovo nuova energia… Benedetto: Mi preoccupa il candidato dei 5Stelle.

Viceconte: La gente mi tocca, vuole sapere, vuole conoscere. Sa che sono lucano al cento per cento.

Benedetto: Io nasco con Di Pietro, poi quando abbandona l’agone costruisco in regione il Centro democratico di Tabacci divenendone segretario amministrativo. Non so bene perché, ma mi fanno la guerra. A quel punto, fratello caro, la decisione è presa.

Viceconte: Non dimentichiamoci che ho attraversato quest’ultima legislatura con Angelino Alfano, quindi di qua. Benedetto: Quando ho deciso che di là non c’era nulla, sono andato ad Arcore, accompagnato da Maurizio Belpietro (possiedo una quota della proprietà del giornale La Verità). Mi era parso che Berlusconi fosse contento della mia presenza. Poi non so come, ha rifiutato di candidarmi.

Viceconte: Con Beatrice Lorenzin abbiamo composto questa lista, la Civica Popolare alleata di Renzi. Corriamo per vincere.

Benedetto: Io credo che proprio Viceconte, che continua ad avere colleganze nel centrodestra, temendomi abbia tramato per farmi fuori. Comunque non c’è riuscito. Dopo il no di Berlusconi mi hanno chiamato Raffaele Fitto e Gaetano Quagliariello e mi hanno detto: vuoi fare la quarta gamba del centrodestra? E ho fatto la quarta gamba. Ma alla quarta gamba non è stato dato il collegio di Matera, cosicché io, materano (là sono fortissimo), mi sono ritrovato a giocarmela a Potenza, fuori casa.

Viceconte: Se le dico che solo una volta un dirigente del Pd in un incontro mi ha chiesto: ma lei da dove viene e dove va? E io ho risposto senza trascurare nessun dettaglio. Alla fine quel signore quasi mi abbracciava. Mi ha detto: ‘Grazie, adesso ho capito tutto’.

Benedetto: Qua i Pittella rischiano veramente di farsi male. Queste elezioni daranno risultati sorprendenti.

Viceconte: In tutta sincerità non ricordo di essere stato interrotto per via del mio voto in Parlamento su Ruby nipote di Mubarak. A parte che sono cose passate.

Benedetto: In Basilicata sarà un fracasso. Le faccio vedere che riusciremo a dare un seggio anche alla Lega, cose mai viste.

Viceconte: Faccio mente locale, ma su Ruby davvero nessuna obiezione ho ricevuto. Qui poi vale molto il dato territoriale. Io nasco a Francavilla sul Sinni, non so se mi spiego. Ho dato sangue a questa terra.

Benedetto: Il mio problema sono i 5stelle. Sono forti, adesso hanno candidato questo presidente della squadra di calcio del Potenza. In tutta sincerità, Viceconte non lo vedo proprio.

Viceconte: Stringo mani, incontro gente. Sto lottando pancia a terra e il consenso sale, sale, sale.

Benedetto: Non c’è alcun dubbio che il sottoscritto se dice una cosa poi la fa. Col centrosinistra ho fatto l’assessore regionale, ho capito come funziona la politica, ho l’esperienza giusta.

Viceconte: Sono molto più che ottimista.

Benedetto: Domani sono pronto a fare il deputato per il centrodestra, e mi preparo per dopodomani quando mi candiderò per presidente della Regione.

Viceconte: Queste elezioni sono strane ma per fortuna i lucani sono un popolo operoso e concreto. Non ti chiede le analisi del sangue.

Benedetto: Il Pd farà un bagno. Hanno candidato la sua collega, Francesca Barra. Secondo me non sa neanche dove si trova. Zero.

Viceconte: La politica è una passionaccia. Mi crede se le dico che sto attraversando un periodo formidabile? Benedetto: Ho fatto sempre tutto da solo. Alle primarie del centrosinistra raggiunsi il 22 per cento.

Viceconte: Siamo a un’incollatura.

Benedetto: Non lo stia ad ascoltare.

da: Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2018

Mancini contro Naccarato. Cosenza e i candidati scambisti “Embè? È un gesto di coerenza”

Cosenza è la città dei Bruzi, l’Atene della Calabria per la sua Accademia. Si arrampica su di un pendio dal quale domina la valle del Crati. E proprio a Cosenza va in onda il più straordinario match politico. Centrodestra e centrosinistra hanno schierato nel collegio uninominale, pur di rendersi reciprocamente la pariglia, candidati scambisti, in qualche modo scambiati, naturalmente e perfettamente ubiqui. Giacomo Mancini (Pd), di nobile famiglia socialista, ha fatto garrire la bandiera riformista di qua e di là. Il suo solido competitore, Paolo Naccarato, raccoglie invece per Forza Italia la fiaccola democristiana con la quale si è fatto luce, nel recente passato, di qua e di là. Quel che segue è il confronto verbale tra i due contendenti, pacato e responsabile, con isolati e trascurabili acuti.

Mancini: Mi state manganellando perché sono candidato nel Pd al Parlamento ma primo dei non eletti in Regione con Forza Italia. Dimenticando però due cose: la linearità del mio percorso e il fatto, incredibile, che il mio competitore ha fatto l’andirivieni che davvero fa paura.

Naccarato: Questo non permetto a nessuno di dirlo. Proprio no. Sono sempre stato l’interprete autentico della fede democratico cristiana. E quella fede mi ha fatto sostenere, a prescindere, tutti i governi del Paese. Chi fa politica, e qui ci vuole la P maiuscola, antepone l’Italia al proprio destino.

Mancini: Ma lui ha fatto l’accordo anche con la Lega alle scorse elezioni, si è inventato una lista, mi pare 3L, per passare con il centrodestra dopo che era stato sottosegretario nel governo Prodi.

Naccarato: Effettivamente ho creato, ed è stata un’invenzione straordinaria, la Lista 3L permettendo la volta scorsa a Salvini di fare le candidature da Roma in giù. Però, come benissimo si può verificare, io nel gruppo leghista del Senato ho fatto sosta per un giorno soltanto. Poi subito al Gal, col quale ho concluso il mandato parlamentare.Continue reading

TOUR ACUSTICO: Da Genova a Palermo, tutta l’Italia in un giro di note

Dove andiamo stasera? Al River Bar in via Forche 1/C a San Martino in Rio, vicino Correggio, una quindicina di chilometri da Reggio Emilia, o al Piccolo Bar in viale Resistenza? Certe notti o sei sveglio o non sarai sveglio mai/ci vediamo da Mario prima o poi. Era il 1995 e Ligabue ci portò nella sua nebbia, in questo bivio di case, filari di pioppi e i suoi due amati bar. Ci vediamo da Mario prima o poi.

GEOMUSICA, melotoponomastica o come vi pare. Ascoltare le canzoni con la cartina geografica in mano (o con google maps ) è curioso e istruttivo. L’Italia delle canzoni, un libro di Italo Mastrolia (edizioni Graphofeel) ci fa viaggiare tra l’alto e il basso del successo. Canzoni note e sfigate, intense o petalose, minuscole o immortali, tutte comunque che partono o arrivano in un punto esatto. Proprio lì ad Andretta, nell’Irpinia d’Oriente, dove Vincio Capossela ha famiglia. Sono gli anni della grande emigrazione (ogni passo manda un bacio/gia le piacio, già le piacio/si chiama Angela sta a Torino/piace pure a mio cugino). Geolocalizzare. Chi siamo noi e dove andiamo noi/a mezzanotte in pieno inverno ad Alessandria, ed è Paolo Conte. “Novara no”, di Banda Bassotti quindi Milano. Cimit ero Monumentale, non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità. Questi sono i Baustelle. E “Porta Romana” di Giorgio Gaber? Porta Romana bella, Porta Romana. “Luci a San Siro”, più in periferia. Ricordi il gioco dentro la nebbia?/tu ti nascondi e se ti trovi io ti amo là cantava Roberto Vecchioni alla sua prima grande fidanzata, Adriana, sua vicina di casa. Seguire le note o la segnaletica ed essere in via Broletto con Sergio Endrigo, o nella via Gluck di Celentano e Corso Buenos Aires con Lucio Dalla. Letteratura musicale infinita, canzoni alti e canzoni basse, e dischi su dischi: “Il cielo di Milano”, “Il duomo di Milano”, “La neve su Milano”, “Lettera da Milano”, “Lontano è Milano”, “Milano bene”, “Milano innamorata”, “Milano Milano”. Basta più. A Stradella con Paolo Conte: È grigia la strada ed è grigia la luce/e Broni, Casteggio/ Voghera son grigie anche loro/c’è solo un semaforo rosso quassù/nel cuore, nel cuor di Stradella. E il cuoco di Salò di Francesco De Gregori o il lago di Como di Van De Sfroos: Brezza di Nesso, erba di Boffalora/sabbia di Fuentes e un tuono di Colmenacco/Vola, vola…vola fino a Tresenda/vola in Valcavargna e al Pian del Tivano.Continue reading

Da Salvini a Gasparri: un tweet allunga le ugole dei politici

In genere sono vigili urbani o carabinieri di complemento. Li osserviamo nei collegamenti televisivi porsi sul ciglio dell’inquadratura nella speranza che il loro capoccione entri nello schermo. La televisione è potente e il piacere di farsi riconoscere al bar dagli amici resta indiscutibile. Quando c’è Sanremo il disturbatore di turno però sale di grado e diviene il politico che ritenendo vitale la propria presenza nello show più popolare d’Italia rifiuta la legge della fisica sulla impenetrabilità dei corpi e manovra per imbucarsi.

L’ESITO – largheggiando con i sentimenti – varia spesso sui diversi caratteri della compassione. Ora noi siamo abituati a tutto da Maurizio Gasparri, perciò la sua prova canora, perfettamente stonata, a Un giorno da pecora (Radio Uno) è nella coerenza del personaggio che contrasta al famosissimo Antonio Razzi (anch’egli naturalmente presente al parallelo confronto canoro), già senatore ora solo caratterista, la palma del migliore. Nella gara, e chissà perché, entra Liberi e Uguali. Con un tweet rispondono a Fiorello che sul loro nome aveva scherzato per un nanosecondo: mi ricorda lo shampoo, liberi e belli. Lo shampoo si chiamava Libera e Bella e Grasso, se proprio, avrebbe dovuto puntualizzare. Invece è comparsa la sua faccia da preside e la scritta: si, anche belli! Se non hai la battuta pronta è meglio che fai lo snob e parli di coesione territoriale. Carlo Calenda, ministro irrequieto e snob, ha pensato di imbucarsi facendo lo snob. Quindi ha scritto su twitter che, per non fare lo snob, ha visto Sanremo, appuntamento al quale mancava dal tempo degli Spandau Ballet, perché lui mica perde tempo con i Pooh. Apriamo parentesi: questi benedetti Pooh si sono divisi e sono cascati, senza un perché, sull’Ariston come quelle bombe a grappolo, arma dai micidiali effetti collaterali, sparati da Baglioni (chi, Gentiloni?) contro il popolo in festa. Ovunque morti e feriti. Ho capito, vi state chiedendo: e Salvini cosa ha fatto? Poteva lui lasciare sgombro il campo? Continue reading