MANUELA CAVALIERI
Continuo a pensare a lui, mentre guardo la tazzina con l’ultimo goccio di caffè. È andato via con due pesanti valigie rosse. Col suo abito blu chiaro un po’ sdrucito. Le spalle basse e l’espressione da cane bastonato. Quando è arrivato, nel primo pomeriggio, era raggiante.
Mi ha stretto vigorosamente la mano e mi ha sorriso. Ha poggiato a terra il suo bagaglio ed ha estratto il suo tesoro. L’ottava meraviglia. Supertecnologico, completo di tutto. Un gioiello. Quale donna non vorrebbe a casa un aiuto così portentoso! Lava, lucida, spolvera, aspira. “Vero signò?!” continuava a chiedere a mia madre, supplicando conferma. Entusiasmo da vendere.
Ma è caduto al caffè. Si è tolto gli occhialini, ha allentato la cravatta. Sorseggiando ho scoperto che aveva da poco compiuto vent’anni. Voleva fare il geometra, ma era andata male. Ed ora cercava di arrangiarsi per aiutare la madre sola “perché da quando c’è l’euro non si capisce più niente, vero signò?”
Gli ho chiesto se il lavoro gli piacesse e mi ha detto di sì, senza convinzione “perché bisogna adattarsi, non si possono inseguire i sogni, vero signò?”. Mi ha detto che ha imparato a fare buon viso a cattivo gioco: “Io so solo che devo bussare a una porta.” C’è chi apre e c’è chi insulta. Chi dice gentilmente no e chi ti manda a quel paese. “Ma io non ci resto più male. Se vuoi sopravvivere devi diventare insensibile, vero signò?”.
Che triste è adesso. A me tanto insensibile non sembra. “Forse tra una decina d’anni divento pure supervisore, e poi altro che trecento euro al mese e porte sbattute sul muso, vero signò?”.
Il caffè è quasi finito. Meglio risistemare la cravatta a pallini.
Richiude mesto le valigie, l’aspirapolvere ce l’abbiamo già. “Però se vostra figlia si sposa, glielo comprate da me! Vero signò?”