Andare da un pizzo all’altro. E andarci comodi, quasi in carrozza. Grazie al pizzo, allo spuntone di roccia che maestoso separa il borgo dalla marina, Pizzo Calabro è diventuto un luogo famoso, visitato, segnalato in tutta Italia. Il suo mare turchese, la costa stupefacente, i vicoli e i profumi inconfondibili. Nel 1984 il sindaco ebbe un’idea grandiosa: se bucassimo il pizzo, se gli facessimo un foro interno invisibile, come usano i pasticcieri col panettone riempito di crema chantilly, avremmo la possibilità di installare un ascensore. Riparato dagli occhi ma vicino al cuore (e alle gambe) di tutti coloro che si risparmiano gli scalini e il sudore dell’arrampicata.
L’idea parve davvero ottima e malgrado qualche contestazione del solito comitato spontaneo pro natura (“Pizzo si chiama così perché c’è il pizzo di montagna, e chi viene lo sa che si sale e si scende e questo è anzi il bello”) fu subito contratto un mutuo da un miliardo per la realizzazione. Subito proprio no. Ma in Calabria il tempo passa più lento che altrove, quindi: 1995 inizio dei lavori. Undici anni di riflessione sono sembrati il giusto. Serve una parentesi: quando un’amministrazione pubblica deve contrarre un debito ha la mano leggera. Quel debito peserà sulle casse, produrrà interessi, dovrà essere restituito. Ma in Italia non c’è l’ufficio della resa del conto: cosa fai, quanto costa, perché lo fai e chi paga. Nessuno deve rispondere a nulla. Geniale.
I lavori, adagio adagio, iniziarono e proseguirono per sette anni. Nel 2002, riporta meticolosamente Il Quotidiano di Calabria, l’opera fu conclusa e inaugurata. “Evviva, funziona!”. Da pizzo a pizzo in ascensore. Da nord a sud e viceversa. Due minuti e sei in piazza; due minuti e sei a mare. Il giorno dell’inaugurazione si fece festa. Tutti contenti. Però si era trascurato di richiedere tutte le autorizzazioni del caso, e comunque ci si era dimenticati che per far funzionare l’ascensore serviva un custode che accompagnasse gli ospiti su e giù per il pizzo ogni giorno. Un custode lavora otto ore, la giornata è di ventiquattro ore, servivano tre custodi. E chi paga? Boh!
Infatti, inaugurata l’opera, fu subito attrezzato un cancello e posto un lucchetto. Un anno, due, tre. Siamo a sei. L’ascensore non è mai entrato in funzione, anzi si è un po’ arrugginito, e servirebbero altri 250mila euro per metterlo a norma. Soprattutto servirebbe un custode, anzi tre!
Ma l’Italia è lunga, e se la Calabria è la punta, o la coda, la testa sicuramente è rappresentata dalle Alpi. In Trentino le cose si fanno meglio. Per esempio…
Un’azienda, racconta Il Trentino, deve costruire un magazzino: magazzino Cavit. Alto alto, 22 metri e mezzo, è progettato il muro perimetrale. Molto, molto più alto di quello di Berlino, e più spesso e imperiodo dell’altro che a Gerusalemme divide gli arabi dagli israeliani. A Ravina, luogo alpino, la muraglia ha qualcosa di cinese. Preoccupante. Si forma il comitato, s’annuncia la protesta e la denuncia: “Ma non vi accorgete che state autorizzando la costruzione di un mostro?”. I consiglieri comunali, componenti la commissione urbanistica, cascono dalle nuvole: ma no, è opera poco invasiva. Hanno in mano il rendering, il progetto tecnico col quale si proietta l’immagine del costruito: lo stato dei luoghi ante operam e post opera. Così è, così sarà. Si concede dunque l’autorizzazione: betoniere e carpentieri, ferro e cemento. Il muro si alza, si alza, si alza. Si alza al punto che qualcuno chiede: ma cosa avete visto in questo rendering? Si scopre, questa è l’accusa, che purtroppo anche a Trento si tarocca. Il rendering, cioè il progetto, sembra infatti poco poco modificato. Hanno esibito gli uffici comunali un muro più piccino di quello da realizzare, spostato l’asse ottico, ingentilito ogni cosa. Ne è così convinta la Procura che ha posto sotto sequestro l’opera. Comunque già tutto stato costruito, e pure – siamo al nord – in un batter d’occhio!
(da Repubblica.it)