Lo spostamento d’aria prodotto da questa crisi di governo nei Cinquestelle ha lasciato in piedi Beppe Grillo e messo quasi al tappeto Davide Casaleggio. Il primo ha reagito al trauma di una sconfitta strategica, cioè l’impossibilità di promuovere il cambiamento con la forza che era parsa più affine, con un doppio passo in avanti. Lui, prima ancora di Matteo Renzi, ha intravisto nella difesa ultima delle ragioni del Movimento la necessità di provarci ancora nell’idea che la meccanica, appunto il movimento, fosse la salvezza e insieme la speranza. Mobilità come capacità di generare alleanze e produrre i fatti che dessero ragione a chi ha votato Cinquestelle. Grillo non soltanto ha spinto i suoi a non avere paura del nuovo, ad abbracciare il Pd dopo essere stati scaricati dalla Lega. Ha anche prodotto, ed è il fatto politico saliente, un cambiamento della leadership sostituendo Di Maio, che paga il fallimento dell’alleanza con Salvini, con Giuseppe Conte. Era sempre Grillo ad aver puntato su Di Maio, giovane, borghese, volitivo, con una faccia pulita e un messaggio rassicurante. Oggi, in virtù della fede nel movimento, cambia strada e cerca Conte, che possiede le medesime virtù anestetetiche del giovane Luigi, e quindi tranquillizzanti per un elettorato moderato, ma in più un background professionale e un sistema di relazioni notevolmente più larghe e solide. Non solo la giacca e la cravatta ministeriali, ma anche la pochette al taschino, segno dell’upgrade nella reputazione sociale.
La realtà, come sempre, ora si incarica di assegnare il torto e la ragione. Casaleggio è out. Se conta, conta di meno perché Beppe Grillo oggi conta assai di più.