Le terre sono tremule e gli italiani sono innanzitutto terremotati perché i terremoti hanno unito l’Italia. Nel 1980, quando la Campania e la Basilicata furono scosse da un sisma di magnitudo 6,9 della scala Richter, provocando 2914 morti e novemila feriti, un bilancio di una guerra, le file dei connazionali che si diressero in quelle zone per dare una mano furono chilometriche. E non c’è italiano di una certa età che oggi non ricordi quel che fece. Fuori dai confini nazionali si mobilitarono decine di associazioni e molti furono i governi che ci diedero aiuto. Perfino Saddam Hussein staccò per l’Irpinia un assegno di alcune centinaia di migliaia di dollari.
Dopo il 1980, o forse grazie a quella sciagura nazionale, nacque la Protezione civile sotto la spinta illuminata di un parlamentare varesotto, Giuseppe Zamberletti, democristiano, a cui il governo decise di affidare le funzioni di commissario straordinario dell’emergenza. Ma l’Italia prima di quella botta che incenerì un centinaio di paesi e squarciò la terra e le mura tra Napoli e Potenza, aveva già conosciuto e patìto il dolore, le morti e i danni delle catastrofi.
Era il 1908 e Messina fu colpita da un sisma di grado 7,2 della scala Richter che letteralmente spazzò via la città. La conta dei morti, approssimativa e problematica, indica solo una forbice potenziale: tra i 90mila e i centoventimila, migliaia dei quali nemmeno hanno avuto la fortuna di un ricordo, di un fiore. Dispersi, nebulizzati.
Quello che chiamiamo progresso aiuterà, negli anni del secondo Novecento, ad erigere un minimo argine alla forza della natura. È il 1968, altra data cruciale di questa speciale storiografia, quando il Belice, a sud di Palermo, viene trafitto da una lama che taglia in due la terra. Trecentosettanta i morti (6.4 gradi della scala Richter) per un terremoto che si trasformerà nel primo esempio di una ferita che non trova cura.
Gli sfollati vagheranno per anni, quei paesi vivranno provvisoriamente nei decenni che seguono fino a quando, in Friuli, la natura si sveglia di nuovo, miete ancora più vittime (990) perchè la botta è ancora più tremenda (6.5 Richter). Gemona del Friuli è la capitale del dolore, ma da lì parte anche una rivincita dell’uomo, della sua classe dirigente. Perchè il Friuli sarà l’esempio di una ricostruzione veloce e larga, di uno spreco che non esonda, di soldi che si dirigono, fatte le dovute eccezioni, verso gli obiettivi prefissati. In dieci anni, il tempo tecnico per ricostituire le comunità, quella grande ferita viene suturata e lungo il Tagliamento si ripropone, utilizzando nella maggior parte dei casi le pietre cadute, la tipologia urbanistica preesistente adeguata ai criteri antisismici, alle prime prove di un cemento davvero armato di ferro.
Quattro anni dopo la campana suona in Campania e Basilicata. E’ nella ricostruzione che il Nord si distingue dal Sud. Perchè a Sud la spesa pro capite della prima emergenza si innalza, arrivando alla cifra attualizzata di 7889 euro (solo per il primo anno e per ciascun terremotato) senza che i benefici siano visibili. Nascerà quella che verrà definita l’economia della catastrofe: un flusso ininterrotto di danaro per soddisfare bisogni nuovi e forse falsi. Alla fine il conto della spesa raggiunge i sessantamila miliardi di lire. Troppo e soprattutto troppo lungo il tempo impiegato, troppi scandali, tanto che si parlerà di Irpiniagate, troppi conflitti di interessi. Troppi imprenditori del Nord che scendono a Sud per svaligiarlo, per ottenere i benefici di legge (tutto il capitale necessario a costruire le industrie promesse) che viene raccolto e spesso dirottato altrove. I dieci/quindici anni della ricostruzione friulana si trasformano nel disastroso trentennio irpino. La curva della spesa ridiscenderà nel 1997 quando l’Umbria e le Marche soffrono del grande terremoto (5.6 Richter), pochi i morti (11) ma molti danni. La spesa per l’emergenza si ferma nel primo anno a 4810 euro (sempre attualizzati) pro capite.
Poi nel Molise (anno 2002), nella sciagura dei bimbi della scuola di San Giuliano di Puglia seppelliti (ventinove le vittime) il primato della spesa pazza si fa assoluto. L’emozione per le bare bianche condiziona anche il flusso finanziario: saranno spesi 27mila euro per assistere, rifocillare e dare un primo tetto a ciascuno dei per fortuna pochi terremotati nel solo primo anno. La politica fa la sua parte: allarga prodigiosamente il territorio danneggiato, eleva le cifre del patimento e promuove, nel solco dell’economia della catastrofe, la seconda grande abbuffata. Appena mitigata, sette anni dopo, quando a L’Aquila Silvio Berlusconi, da premier, decide di realizzare, per i senzatetto, non i prefabbricati ma vere e proprie case. Il progetto C.a.s.e. acronimo che spiegherà la costruzione di palazzetti in legno e acciaio, succhierà un fiume di danaro e prima ancora, per organizzare solo la prima accoglienza, la Protezione civile spenderà 23.718 euro per ciascun senzatetto. A farne le spese è proprio L’Aquila che dopo dieci anni e sei miliardi spesi, ancora è una città provvisoria.
L’Aquila doveva far capire a chi ci governa che prima della spesa è necessario delimitare i danni e rendere efficiente il meccanismo ricostruttivo. Parole al vento perché, anni dopo, Amatrice pare la replica di ciò che mai si dovrebbe fare: il fermo tecnico di una legislazione che inceppa invece di agevolare, allunga invece di accorciare. Complica anziché risolvere.
Da: Il Fatto Quotidiano, 1° aprile 2019