Iniziamo da chi ha vinto. Per esempio Elio Lannutti, il senatore Cinquestelle sempre dalla parte dei cittadini: “Non si digerisce, per inghiottirla ho dovuto chiudere gli occhi e pregare che il mio stomaco fosse compassionevole”. È alla buvette ma non parla del salmone andato a male. Il bocconcino storto, amarissimo si chiama Elisabetta Casellati, la pretoriana di Berlusconi, l’avvocatessa delle leggi ad personam. Lui l’ha dovuta votare e Andrea Cioffi, della stessa squadra pentastellata, fa training autogeno: “Ma chi ha cacciato Berlusconi da questa Aula? Chi se non noi?”. Tolto il reflusso gastrico, che pure è stato potente per alcuni, la partita doppia ieri non ha avuto storia. E il silenzio col quale il Transatlantico di palazzo Madama ha accolto il passaggio di Matteo Salvini verso l’Aula, con una deferenza che neanche a De Gasperi fu riservata, marchia a fuoco il senso della svolta.
IL FORZISTA Renato Brunetta, che nei momenti di calma è ipercinetico, ieri era letteralmente in fiamme. Avvolto da lingue di fuoco, da una rabbia nero fumo, procedeva al telefono sviluppando cerchi concentrici. Non ha mai smesso di girare in tondo per una buona mezz’ora, e mai ha staccato dalle orecchie lo smartphone: “Pe-ri-co-lo-so”. “Non sarò più capogruppo, è un mestiere troppo pericoloso”. Infuriato per la piega degli eventi e per il sopruso col quale Salvini ha steso il titolare della ditta, e l’irrisione di cui ha poi dato prova dopo essere uscito da palazzo Grazioli: “Gli ho portato un gelato”. Sottinteso: al vecchio. E grassa, pingue, sonora la risata di Toninelli, la gioia con la quale lui e Di Maio hanno salutato Fico sullo scranno di presidente della Camera, come lieve, di circostanza, ridotta a un puro esercizio muscolare quella di Luigi Zanda, capogruppo in uscita di un Pd in disarmo: “Mamma mia, meglio non pensare a quel che abbiamo fatto. Anzi, a quel che non abbiamo fatto. Ma vedo che quello parla, parla”.
Quello è Matteo Renzi che in effetti da venerdì non smette di cianciare: “Che dite? Vado prima in bagno e poi ad ascoltare il discorso della nuova presidente?”. Battute slabbrate, senza fibra e un sorriso un po’ incosciente e un po’ impotente. Il vecchio Umberto Bossi è adagiato su una poltrona del bar Giolitti, ai bordi di Montecitorio, a bere la solita acqua tonica. È lui l’ultimo vietcong, l’unico vero padano e berlusconiano, l’unico a immaginare Salvini appeso a testa in giù, “come Mussolini” per la pugnalata data all’amico e fideiussore Silvio: “Poteva costarci la Lombardia e il Veneto”.
Invece no, la lama Matteo il giovane l’ha conficcata nel costato di Forza Italia e l’ha tirata via soltanto quando l’ex leader si è arreso, confortato dagli amici di sempre, Confalonieri e Galliani, quest ’ultimo, oggi legislatore, sempre sconfortato con la realtà che ha trasferito tra i gregari sia il grande Milan che il grande Capo. Un altro vecchio, Giorgio Napolitano, nell’ultimo atto della sua lunga vita, si commuove salutando “questi splendidi segretari di presidenza”, che gli hanno permesso di guidare in surplace la prima seduta del Senato. Quattro giovani senatori: due dei Cinquestelle, uno del Pd, uno della Lega. “Mi chiamo Roberto Rampi, sono stato appena eletto per il Pd”. Al senatore Rampi, una barba bella e folta, il sorriso ancora fanciullesco e la voglia di guardare lontano: “Per me questa non è una giornata storta”. “Per me la Casellati non è stata un problema. Non vedo proprio il perché, comunque piacere, sono Grassi, ordinario di diritto civile e senatore Cinquestelle”. Piacere. È la upper class grillina. Mai perturbata e con quel tocco in più di realpolitik.
UN ALTRO mondo e un altro modo i nuovi saliti sul carro dei vincitori. Di Maio li ha scelti con cura e a vederli all’opera, molto distinti, eleganti, pieni di premure, si direbbe che li abbia selezionati per un viaggio al governo già abbondantemente iniziato. Pier Ferdinando Casini, ricordate? È qui che spiega, discute, illustra. Se mai fosse esistito un mago che gli avesse predetto di finire intruppato tra gli eredi del Pci lo avrebbe di certo fatto internare. Eppure è lui l’eletto di Bologna per il Partito democratico. E invece Pietro Grasso? Non più presidente né leader. Senatore a scartamento ridotto, senza altro da fare che pensare a quel che è stato e non sarà. Un posticino nell’emiciclo all’estrema sinistra, proprio dove mai avrebbe immaginato di essere destinato. Ultimo tra gli ultimi. Proprio come Paolo Romani, fino a ieri coccoloso e ora invece scoperchiato di rabbia: “Abbiamo lasciato a Salvini di fare tutto in nostro nome”.
Resa, sconfitta, amarezza e rabbia. Ognuno la contiene come può. Gentile, misurata, Annamaria Bernini, mandata allo sbaraglio e impallinata senza colpe dal contropiede salviniano, la prende per il verso giusto: “Sto confortando le mie collaboratrici. Guardate che non è finito il mondo, verrà il momento”.
Da: Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2018