Amatrice, Accumoli e Arquata, le regine sfortunate di questa nuova tragedia nazionale, fanno da specchio rifrangente. Il disastro è dentro i confini di questa tripla A, solo lì, sempre lì. E ogni telecamera, ogni cura, attenzione, aiuto si dirigono naturalmente verso questa frontiera del dolore. Invece la strada che punta verso L’Aquila accosta Comuni che hanno tremato ma non sanno dir come.
Montereale, per esempio, sussulta dal 2009, da quell’altro sisma. Alla farmacista, piazzata in un box all’ingresso del paese che diversamente dai suoi vicini si distende in piano, hanno detto di aspettare. “Sono sette anni che sto così. Dobbiamo ricostruire, ma quando?”. Cinzia Lolli pensa al vecchio sisma, quello che colpì L’Aquila e danneggiò il suo negozio. Il sindaco parla del nuovo: “Sono già stati compiuti 421 sopralluoghi su 1832 segnalazioni. Ma io sto parlando di questo terremoto qua”. Il municipio è già al suo secondo trasloco. Dalla sede originale, inagibile nel 2009, alla casa dei forestali. In sette anni non c’è stato tempo di renderla sicura e così dopo il 24 agosto ha ceduto anche la seconda sistemazione. Adesso Massimiliano Giorgi, poliziotto e primo cittadino, è sistemato nella sede provvisoria della scuola elementare, con la scrivania all’ingresso delle aule.
I SOLDI non sempre aiutano e nel conto de L’Aquila – benché la stima totale sarà vicina ai 12 miliardi di euro – i danni della piccola Montereale fanno fatica a essere ricompresi. Degli 80 milioni di euro preventivati solo 12 sono andati a segno. Il resto è fermo, immobile. “L’anno scorso eravamo pronti con le progettazioni esecutive, stavamo per partire quando bum…”, dice il sindaco. Aggiunge però che per tre anni, e lui certo non è il colpevole, nessuna ruspa è entrata in funzione. Comune commissariato, uffici fermi dal 2009 al 2012. Poi si sono messi di mezzo i tecnici che, oberati dal lavoro, hanno ritardato la consegna dei progetti.
Non c’è terremoto senza la presenza di un partito forte, agguerrito, trasversale: quello appunto dei progettisti. Monopolisti degli incarichi (parcella del 10 per cento sul totale del contributo), scandiscono i tempi della ricostruzione. All’inizio accaparrano committenze attraverso i circuiti familiari o politici (per raggranellare più progetti senza dare nell’occhio si fa generalmente ricorso a teste di legno, colleghi in disarmo o giovani disoccupati di altre città che pur di lavorare accettano il subappalto) e poi con comodo esaudiscono le richieste. E per loro adesso è una doppia fortuna perché a Montereale, che è un borgo per fortuna integro, vecchi e nuovi danni si sommano e chissà… Una frazione, Aringo, è stata particolarmente colpita e poi altri interventi sparsi.
Cinzia la farmacista aspetta e nell’attesa indica la strada di Campotosto, un altro dei Comuni ricompresi nell’area del cratere. La strada che ci conduce è bellissima, siamo nel grande recinto del parco del Gran Sasso, le siepi ordinate, il manto perfetto, le cunette tenute a bada per bene e case all’apparenza dritte e solide. Poi il lago che d’estate chiama gente. Quindi il ristorante, l’unico nei paraggi. Nel parcheggio auto della polizia locale di Mantova, di Milano. “Fanno servizio ad Amatrice”, spiega l’oste. Anche Campotosto ha tremato, e infatti è ricompreso tra i Comuni destinatari delle provvidenze. “Qui il ristorante ha tenuto perfettamente. È caduta la casa dell’assessore, poi non so co s’altro. Noi siamo in tre e abbiamo preso in gestione questo ristorante, siamo giovani e ottimisti, però…”.
L’ECONOMIA del terremoto aiuta anche Gianni. I suoi tavoli sono occupati, i vigili urbani del nord ogni giorno e chissà per quanto tempo ancora fanno visita all’ora di pranzo. È il paese che preoccupa. Non per le macerie, che infatti non si vedono, ma per i vuoti urbani. La piazza è deserta, un solo bar, il titolare all’uscio, due impiegati al Comune, una nonnina. Sono rimasti in cinquecento e se non succederà qualcosa anche questi ultimi, malgrado i soldi che arriveranno dal governo Renzi, faranno le valigie.
L’unica speranza per tenere questi paesi in vita più che il cemento è il treno. Correva l’anno 1846 e nella lettera, datata 15 luglio, il delegato apostolico di Ascoli Piceno proponeva al collega di Rieti “un ponte tra i due mari”: “Sarebbe necessaria una ferrovia che unisse Ascoli con Fermo e codesta con Rieti”. Sono 150 anni che si discute del treno, l’unico vettore in grado di togliere da un isolamento strangolante, da distanze anche brevi ma impossibili da fronteggiare quotidianamente per i continui tornanti che la montagna impone. Ogni anno la popolazione residente diminuisce, ogni anno chi ha un lavoro sulla costa o in città non ha altra possibilità che trasferirsi. Chi volesse raggiungere Roma da Rieti (dista 90 chilometri) senza incolonnarsi sulla Salaria deve salire in treno a Terni (33 chilometri) e poi ridiscendere verso la Capitale per altri 116 chilometri. Una barzelletta.
E i Comuni di montagna, la linea del dolore che congiunge Amatrice ad Arquata e dall’altro versante prosegue verso Campotosto per poi giungere nel Teramano, non avranno possibilità di salvarsi senza un mezzo che permetta loro di vivere quassù e magari lavorare in città. Ci sono le mucche che pascolano ai bordi della strada che allunga verso est. Una roulotte dopo qualche chilometro, dimora provvisoria di chi ha perduto la casa, e poi nulla.
IL GRAN SASSO è una meraviglia di prati e di boschi, di casette in ordine per fortuna. Abitanti impauriti ma non sfollati. Tento una verifica lungo il tragitto al Bar Pizzeria Serena. Chi meglio della barista sa se ci sono danni in giro? “Mai visto tende, e mai nessuno che si è lamentato”, dice sicura. “Invece i danni ci sono, eccome che ci sono”. Vincenzo Esposito è il sindaco di Valle Castellana, altro Comune della cintura, e tiene nel telefonino, a prova che il suo paese è stato severamente colpito, la foto di due muri crollati. “Vede?”. Qui al centro? “Non proprio, ma in alcune frazioni sì”. Ma quante case? “Cosa vuole che le dica, parecchie”. Dieci? “Molte di più”.
Il terremoto è una sciagura, ma il dopo-terremoto può essere una piccola anche se disgraziata fortuna. E comunque meglio che niente.
Da: Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016