GIORGIO MOTTOLA
Berlusconi non è un prodotto tipico a marchio doc. Una parte degli italiani ritiene che una tale concentrazione di tv e giornali nelle mani di una sola persona si verifichi solo in Italia. Il rapporto di Berlusconi con i media farebbe parte di una tipicità tutta italiana, un’anomalia insomma. La Freedom House, istituto di ricerca americano fondato dai Reagan, che ogni anno stila una classifica sulla libertà di stampa, pone l’Italia al trentesimo posto, dopo Ghana e Mali. Ma l’assalto dei potentati economici agli organi di informazione rientra in una prassi oramai internazionale. I “Berlusconi” parlano tutte le lingue del mondo e rastrellano, in giro per il globo, la proprietà delle più importanti testate giornalistiche. Parlano spagnolo, quando si chiamano Carlos Slim. Inglese, quando il loro nome è Rupert Murdoch o Summer Redstone. Francese quando i volti sono quelli di Lagardère o Marcel Dessault.
Certo, in nessun altro paese il presidente del consiglio nomina direttamente i dirigenti della tv pubblica. E, solo in Thailandia fino a un paio d’anni fa, è allo stesso tempo anche proprietario dell’altra metà privata della televisione. Inoltre, in Europa e negli Stati Uniti, diversamente che da noi, le banche non possiedono direttamente giornali. Gli altri paesi hanno elaborato regole molto più strette a tutela dell’autonomia dell’attività giornalistica.
È vero che Murdoch in gran Bretagna possiede canali televisivi (Sky) e giornali (il Times e il Sun, primo quotidiano inglese con tre milioni di copie vendute). Ma, all’ombra del Big Ben, è più facile verificare l’autorevolezza di chi dà le informazioni. Gli assetti proprietari, che in Italia sono così condizionanti, nel Regno Unito possono non costituire un problema per la credibilità dei network. Da più di quarant’anni gli inglesi hanno trovato una soluzione: il trust. Vale a dire che la proprietà affida la gestione del giornale o della tv a un soggetto fiduciario. L’Economist, forse la più accreditata rivista economica nel mondo, ha scelto questa strada. Il gruppo Pearson detiene il 50% del giornale; l’altra metà appartiene a diversi soggetti, tra cui la potente famiglia Rothschild. La rivista però non deve barcamenarsi tra i difficili equilibri di un patto di sindacato. È infatti un trust a gestire il giornale. Tredici persone scelte in base “allo spessore morale e alla credibilità professionale” e che non partecipano alla spartizione degli utili. Pearson esprime sei membri: l’azionista di maggioranza è addirittura in minoranza nel trust. La Bbc, tv pubblica inglese, ha elaborato un meccanismo ancor più complesso per tutelare l’autonomia delle scelte editoriali. Il governo nomina un trust, selezionando i componenti in base al criterio dell’alta competenza e moralità. I soggetti designati hanno il compito di indicare priorità e strategie che rendano la bbc davvero servizio pubblico. Ad applicare e a vigilare sull’applicazione delle loro indicazioni è poi un comitato esecutivo nominato dal trust, ma da esso assolutamente autonomo.
Simile la scelta del Frankfurter Allgemeine. Il più importante quotidiano tedesco non risponde delle sue scelte alla proprietà, ma a una fondazione, la Fazit. Ne fanno parte sei “illustri” componenti che fanno da supervisori rispetto all’indipendenza del giornale e al suo andamento economico. La sostituzione dei membri della fondazione non avviene su nomina della proprietà, ma per cooptazione degli stessi membri. Inoltre, affinché l’autonomia editoriale sia salvaguardata a pieno, il Frankfurter si è dotato di cinque direttori.
Modello quasi unico è quello di Le Monde, ibrido fra cooperativa e public company. Il 30% del quotidiano francese (terzo per numero di copie vendute) appartiene ai redattori del giornale, riuniti nell “società dei redattori”. Il resto invece si divide tra “società dei lettori” (coloro che individualemente sostengono le monde dall’esterno) e azionisti classici, tra cui: Air France, la banca francese Bnp, la Danone, la Total, insomma il capitalismo tradizionale.