È grande quanto Perugia. È la città dell’illegalità e ogni anno che passa s’allarga, avanza, si fa ricca. Case, casette, tuguri, villone, tenute, boschi, frutteti, aranceti, uliveti. Palazzi enormi e centrali, appartamentini di periferia, hotel di gran lusso, case abusive, cantine, ammezzati: 18.869 immobili sono i beni confiscati alla criminalità organizzata e ai delinquenti di diversa estrazione e generazione. Un popolo che affiora e una città che si erige e ogni anno si espande sempre più. Il capitale dell’agenzia dei beni si arricchisce come petali infiniti di una rosa che si gonfia fino a trasformarsi da fiore ad albero. E non sfiorisce mai: “Ogni mese ci arriva qualcosa, ogni settimana dobbiamo rifare i conti, ogni giorno c’è una novità”dice Matilde Pirrera, vice prefetto delegata a far funzionare la sede di Reggio Calabria, il centro nevralgico della gestione di questo software criminale.
L’invenzione di Pio La Torre
Ricordare sempre, perché gli italiani hanno la memoria corta, che dobbiamo a Pio La Torre, un dirigente politico comunista siciliano, naturalmente ammazzato dalla mafia, se in Italia esiste dal 1982 la legge che confisca ai condannati anche i beni, se finalmente oltre al carcere si fruga nelle tasche, si sequestra il portafogli, si mettono lucchetti alle ville. L’energia vitale di questa legge e la sua forza simbolica sono racchiuse in un’insegna che campeggia a Palermo: una grande cancellata, la scritta Carabinieri e sullo sfondo un grande immobile di colore bianco. Era la villa di Totò Riina ed è divenuta la caserma dei carramba, nella stanza da letto del boss oggi è insediato il maresciallo che comanda la stazione. Si fa festa all’agenzia dei beni confiscati perché nell’ultimo anno si è riusciti a trasferire al demanio o agli enti territoriali (comuni, province, regioni) circa quattromila immobili. “Solo a Palermo ci sono 30 scuole, quattro palazzi che ospitano altrettanto assessorati, la sede della polizia municipale, 400 alloggi di servizio per poliziotti, la sede della commissione tributaria regionale, gli archivi del tribunale e notarili. Tutti immobili confiscati, che bellezza!”, dice Umberto Postiglione, il prefetto che dirige l’Agenzia.
Il tesoro sommerso è ancora enorme
È una bellezza sì, ma è anche pauroso come il tesoro mafioso, ‘ndranghetista, camorristico non abbia fine, perché i beni confiscati sono la velina sotto cui transita il grande portato industriale del malaffare. Non esiste la possibilità di una percentuale tra i beni sequestrati e quelli ancora liberi, ma il rapporto continua a essere purtroppo irrilevante. È schiuma finora quella che ha bagnato le mani dello Stato, resta l’oceano d’acqua, il deposito criminale, i miliardi di euro che allagano i caveau, il cemento che ospita il lusso sfarzoso nelle metropoli del mondo, le aziende che producono sotto nomi di incensurati e magari anche di illibati e riveriti concittadini il fatturato della Mafia Spa.
E man mano che il tempo passa, le confische avanzano verso nord. Se oggi Sicilia, Campania e Calabria sono le reginette del deposito finanziario e immobiliare del crimine, tra qualche anno Lombardia, Lazio, Piemonte e Abruzzo (i finanziamenti destinati alla ricostruzione de L’Aquila c’entrano qualcosa?) scaleranno la vetta.
“Abbiamo 702 ettari in Toscana, a Monteroni, dovremo pur farci qualcosa. Il comune è piccino, pensiamo a un’azienda di agricoltura sociale”, dice Postiglione. E a Novara ha appena affidato il castello di Miasino nelle mani della Regione, ha concesso a delle cooperative le aziende di Pasquale Galasso e quelle di Zagaria, nel casertano. A Milano si tiene il Festival Antimafia nel bosco (sei ettari) della tenuta Chiaravalle (1600 metri quadrati di casale extralusso). A Reggio Calabria è sorta una sartoria sociale per donne in difficoltà, ed è lo sviluppo benigno, curato dalla dirigente della Provincia Daniela De Blasio, di un catasto altrimenti cancerogeno, inutilmente afflittivo. Per dire, a Caltanissetta la prefettura è installata in un palazzo dell’ex presidente della Confindustria!
Sebbene quest’anno siano stati collocati quattromila beni immobili, decuplicando le consegne rispetto agli anni scorsi, preoccupa la progressione delle confische che al nord si moltiplicano e divengono la certezza di uno spostamento geografico definitivo degli interessi e degli investimenti. Non sono soltanto i forzieri delle banche a custodire il pegno della sopraffazione, quanto la linea del mare, le riviere, le ville, le villone, gli hotel, i residence. Beni al sole, mattoni ardenti, percolato mafioso che allaga piazze e vie di borghi lontani da quelli tradizionali.
Nelle maglie bucate dello Stato
La pianta organica dell’Agenzia che deve far transitare questa montagna da mani sporche a mani pulite, prevedeva la miseria di trenta unità. E nella miseria la ancor più miserabile destinazione di un solo funzionario in via definitiva a questa occupazione nevralgica. Poi tutto il resto (siamo a 70 addetti) è frutto di spostamenti pro tempore, trasferimenti e distacchi. Una provvisorietà figlia della distrazione colpevole dello Stato che ancora a fatica riesce a scovare e poi a piazzare il frutto del maltolto. L’agenzia ha ancora in gestione 8672 immobili. Li tiene in mano e non li cede. Tenerli ha però un costo. E li tiene o perché sono frutto di confische di primo grado, quindi ancora soggette a giudizio, oppure perché sono porzioni di immobili indivisi con altri abitati, spesso, da familiari del condannato. O anche perché parecchi di questi beni sono totalmente abusivi, o in condizione di grave degrado. Ma resiste comunque una quota che fa fatica a essere destinata, e questa fatica timbra il disinteresse, se non l’omertà, la codardia di amministrazioni periferiche che prediligono l’assenza di questa ricchezza. Non vedono, non chiedono, non sanno.
Ma l’economia illegale è fatta soprattutto di aziende. Lo stock storico ne conta 2768 e solo 822 sono nelle condizioni di una navigazione autonoma e affrancata dal vizio capitale. Dentro questi numeri purtroppo ci sono evidenze di collusioni tra uffici dello Stato, custodie affidate ai soliti nomi, che sono i soliti commercialisti o avvocati contigui agli uffici, che timbrano il cartellino trasformando in rendita personale questo nuovo segmento industriale.
L’Italia non è certo la Colombia di Escobar, certo. Ma fanno impressione gli sforzi che si compiono per somigliarle.
Da: Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2016