Riccardo Padovani guida la pattuglia dei ricercatori della Svimez che indagano sul Mezzogiorno. Come medici su un corpicino agonizzante, pubblicano a data fissa il bollettino dell’incurabile. Cifre, diagrammi, analisi. Sempre brutte, sempre all’ingiù (tanto che un ex viceministro berlusconiano, il palermitano Gianfranco Micciché, storpiò il nome. La chiamava “sfighez”).
La discussione sull’incurabile dura meno di 24 ore: appena un accenno ai tg, un’intervista afflitta a un politico di passaggio, in genere di seconda o terza fascia, un colpo di tosse e via con un’altra notizia. Arrivederci tra sei mesi. Insomma, se non ci fosse la Svimez neanche esisterebbe più il Sud.
Padovani, ma non le viene lo sconforto di abbaiare alla luna?
Non mi sconforta, mi dispiace eccome però. Credo che negli anni la Svimez abbia non solo analizzato la realtà, ma dato una risposta a come si può aiutare il Sud, perché conviene a tutti che il Mezzogiorno si avvicini agli standard del Nord. Indichiamo dove bisogna investire, e per fare cosa.
Iniziamo dalla fornace dei luoghi comuni sul Sud.
Che il Sud abbia più aiuti pubblici rispetto al Nord è un falso storico. Ne ha molti in meno. Come di meno, in rapporto alla popolazione, sono i dipendenti pubblici. E un altro grandioso falso è che il Nord sia la locomotiva e il Sud stia al traino. Se cresce il Mezzogiorno cresce tutta l’Italia.
L’inverso invece è manifestamente infondato.
Il Sud non ha più una banca, nemmeno una televisione e neanche un giornale che si legga anche a Milano.
Gli ultimi quattro presidenti del Consiglio sono nati al Nord.
Aggiungo che la rappresentanza governativa meridionale (metto dentro ministri e sottosegretari) è scesa dal 33 al 4 per cento.
Sembra che nessuno se ne infischi se il Sud muore di inedia. Persino i meridionali sembrano disinteressati al loro futuro.
Vede questa tabella? Dal 2001 all’anno scorso il Sud ha perso 744 mila cittadini. Emigranti in cerca di lavoro. Di questi i giovani tra i 15 e i 34 anni sono 526 mila di cui 205 mila laureati.
È impressionante: coloro che dovrebbero formare la classe dirigente prendono l’aereo e spariscono.
È un esodo incontrollabile, gravissimo. In sei anni (2008-2014) si sono persi in Italia 811 mila posti di lavoro. 600 mila sono al Sud. Ne vuole ancora? Su cinque nuovi occupati trova lavoro solo una giovane donna meridionale.
La diagnosi è catastrofica.
Esiste il doppio degli individui in condizione di povertà assoluta rispetto al Nord, e tre volte maggiore è il rischio di povertà al Sud.
Cosa si dovrebbe fare e soprattutto come?
Solo grandi progetti e grandi investimenti producono mutazioni di un certo rilievo. Nessuno coordina le politiche attive per il Sud. Ogni regione fa da sé, quel poco che fa. Non c’è un’idea, un pensiero e un collante. Un luogo deputato a governare i grandi progetti e i grandi processi.
Lei cosa farebbe?
Realizzerei le reti di comunicazioni, la logistica. Indicherei per il Sud dei luoghi che devono attrarre risorse e irradiarle nel territorio più largo.
La prima realizzazione.
Il Mediterraneo è il mare dei traffici mondiali. Il 35 per cento delle merci del globo lambisce il Sud. C’è un porto, quello di Gioia Tauro, che può divenire una piattaforma gigantesca per raccogliere il tesoro che gli passa accanto. Ma per essere efficiente un porto dev’essere collegato all’Europa: assi viari, ferrovie. Vede qualcosa?
Niente.
Sono tre anni che Gioia Tauro aspetta di essere definita Zes (zona economica speciale), ma non c’è decisione alcuna. Il Sud è concentrato in due/tre grandi aree metropolitane. Solo quella napoletana raccoglie quattro milioni di abitanti. Poi c’è Palermo e infine Bari. C’è un piano per aggredire queste aree ad alto rischio, così intossicate?
Questo governo, al pari dei precedenti, sembra neanche ricordare che dopo Roma esiste ancora l’Italia.
Il leghismo ha prodotto alterità, diffidenza se non ostilità. Ha scavato nel profondo la coscienza collettiva. Abbiamo lastricato di offese la Cassa per il Mezzogiorno eppure oggi dobbiamo dire che quel che resiste ancora al Sud è figlio della Cassa. Si investì nel l’acciaio (Italsider di Bagnoli e Taranto), nella chimica (Gela) nella meccanica (Napoli) infine nell’elettronica (Catania). C’era una strategia, un’idea di sviluppo, la consapevolezza che la crescita economica del Sud avrebbe agevolato la crescita di tutto il Paese. Dopo Tangentopoli e il leghismo, quel primo federalismo primordiale e secessionista, è avvenuta la desertificazione. Deserto di idee, di uomini, di investimenti.
Secondo lei ha un senso rifare il ministero per il Mezzogiorno?
Può bastare un dipartimento della Presidenza del Consiglio che indirizzi e coordini e se del caso si sostituisca a chi non fa.
Speriamo?
Speriamo.
Da: Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2015