In Italia ogni emergenza si fa industria. Oggi i migranti, ieri gli alluvionati o i terremotati. Abbiamo sperimentato l’emergenza per la munnezza a Napoli (circa sei miliardi di euro il totale fatturato), e prima ancora per il traffico di Roma, per le gondole di Venezia. Finanche i campionati di ciclismo a Varese e la processione del Papa a Loreto furono gestite con i fondi della Protezione civile. Emergenza significa urgenza che vuol dire deroga e poteri speciali. Cioè appalti senza gara, affidamenti senza prove, lavori senza collaudi. Cioè la cuccagna perfetta per i professionisti dello spreco, l’attività collaterale e indistinguibile di ogni buona emergenza che si riconosca. Così la disperazione umana, la migrazione dal sud al nord del mondo è divenuta presto un business, e l’accoglienza un esercizio contabile. Il migrante da disperato si è trasformato nella percezione pubblica, grazie a una propaganda colpevole e collusa, in un succhiasoldi, uno scansafatiche, un renitente alla civiltà. Sono nati, nella fantasia coltivata su internet o in tv, colonie di migranti che a spese della collettività soggiornano in hotel a quattro stelle. Nessuno, fino a quando non è scoppiato il bubbone di Mafia Capitale, ha elencato la banale, elementare realtà: i migranti sono divenuti lo scudo umano, il chiavistello perfetto per organizzare, sulla loro pelle, una gigantesca frode pubblica. Attrezzare stamberghe, trasformarle in centri di accoglienza e succhiare soldi.
Eppure questa verità non riesce a venire a galla. C’è una percezione alterata, una specie di effetto ottico, che ingigantisce episodi anche gravi di malagestione a condizione che i protagonisti siano quelli dalla pelle nera. O – meglio ancora – i rom. C’è una rissa, un incidente? Comitati di protesta, sit in e naturalmente le telecamere a denunciare, anche giustamente, l’inciviltà, la paura, la fatica di vivere per i cittadini delle periferie.
Casca un ponte da duecento milioni di euro in Sicilia appena inaugurato? Silenzio. Muore un operaio sulla Salerno-Reggio Calabria e un pilone in cemento armato s’affloscia come fosse burro? Silenzio.
Si spendono tre miliardi di euro a L’Aquila senza che la città abbia un futuro, una prospettiva di vita? Silenzio. Non c’è raffronto possibile sulle cifre. È come se l’allarme sociale, la nostra tolleranza alle gestioni dello spreco fosse inversamente proporzionata alla sua dimensione. Più grande è lo spreco più superficiale e breve diviene l’indignazione. Più elevato è il torrente di soldi che finiscono nel nulla meno arcigna la forza della denuncia, la protesta, le urla, le mani che si agitano.
È come non avessimo più speranza e quindi, allenati allo sperpero usuale e ufficiale, reagiamo solo a quello accessorio. Scoviamo i centesimi di euro e dimentichiamo il traffico dei bigliettoni da cinquecento.
da: Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2015