Un giudice di 69 anni va in pensione. Lo fa dopo aver compiuto l’ultimo dei suoi doveri professionali: sottoscrivere le motivazioni di una sentenza. Sceglie di non accompagnare neanche con una parola quella sua decisione privata, personale. Quel silenzio condanna invece Enrico Tranfa, presidente della Corte di appello che ha assolto Silvio Berlusconi nel cosiddetto processo Ruby. Quel silenzio, così prezioso e degno, così raro nel quotidiano frastuono con cui la magistratura dibatte e contesta, si loda e s’imbroda, assolve e punisce, polemizza e accusa, lo inchioda alla colpa, deturpa la sua storia professionale, ne decreta la faziosità. I protagonisti di questo processo alle intenzioni, di questo clamoroso cumulo indiziario secondo il quale il contegno assunto, la totale riservatezza esibita, diviene prova d’accusa, sono i suoi stessi colleghi giudici. Il presidente della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio definisce quelle dimissioni così limpide e così intime “non coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche, se dettate dal motivo di segnare personale dissenso rispetto alla sentenza”.
FERMIAMOCI al “se”. È infatti quel se che fa paura, che intimidisce e offende. Che viola il registro elementare dei rapporti civili. Il giudice Canzio rende pubblica una sua personale sentenza che riguarda l’onore, la correttezza, la probità di un collega prendendo come indiscutibile, assoluta e provata dichiarazione d’infedeltà alla toga un fatto che non può provare in nessun modo. Magistrale l’intervento che ne è seguito. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, un democristiano d’Abruzzo fino all’altroieri sottosegretario all’Economia, come primo atto di investitura sceglie di incolpare il dimissionario Tranfa, ormai ex giudice: “Credo che tutti possiamo riconoscerci nella posizione espressa dal presidente Canzio, che io sottoscrivo integralmente”. Legnini dunque sottoscrive il “se”, acquisisce il periodo ipotetico come prova certa, restituisce all’indizio la certezza del dolo, all’allusione il valore di una prova, all’ombra la luce. Capovolge il mondo e le stesse parole di cui si è cibata la politica. “Il magistrato deve parlare per atti”. “Non deve comparire”, “Non deve rilasciare dichiarazioni ai giornali”, “Non si deve conoscere il suo volto”. Una montagna d’ipocrisia, l’enorme castello delle facce di bronzo che il gesto di Tranfa mette finalmente a nudo. Tranfa ha parlato solo per atti, non ha divulgato alcun suo pensiero personale su Berlusconi e ha esercitato un suo diritto esclusivo con ogni riservatezza.
Ma non basta se c’è Silvio di mezzo. E in questo caso il riserbo subisce la manomissione, la figura professionale viene deturpata. Ricordate la vicenda del giudice Mesiano? Anche allora c’era il Cavaliere a imporre uno scrutino alternativo delle prove d’accusa e Mesiano, che era stato chiamato a dirimere il conflitto in sede civile tra Fininvest e Cir, si trovò a venire incolpato per i suoi calzini bianchi.
FU IL FISICO del magistrato a essere posto sotto processo, a essere monitorato e indagato da una telecamera Mediaset. Con lo stesso evidente scopo di screditarne la qualità professionale, ridicolizzarne l’immagine, ridurre a zero ogni credibilità. Oggi, rispetto a ieri, c’è che questi rilievi alla integrità morale di un giudice sono condotti dai suoi (ex) colleghi e per mezzo della stampa. Rispetto ad allora c’è un salto di qualità, un di più di persecuzione. L’enorme gravità del gesto è che questa manomissione non proviene dal Parlamento, dai partiti, dallo staff del Cavaliere. Si accusa Tranfa di aver segnalato con le dimissioni la sua dissociazione dal verdetto che ha assolto Berlusconi. E che razza di accusa sarebbe questa? Egli ha presieduto una corte, e la corte ha deciso. All’unanimità? A maggioranza? La conta non è pubblica, solo la sentenza lo è. Tranfa ha firmato la motivazione dell’assoluzione. Stop. Basta? No che non basta. Deduciamo la sua dissociazione dalla scelta di andare in pensione. Ma è una deduzione giornalistica e risponde all’esercizio legittimo e libero del diritto di cronaca. Non risulta che il dottor Tranfa abbia mai accettato di spiegare a giornali e tv il motivo delle sue dimissioni. Ecco che il silenzio diviene macchia. Ecco l’untore.
da: Il Fatto Quotidiano 24 ottobre 2014