UNA GIOVANE TESTIMONE DELLE BOTTE AI NERI DOPO L’ASSALTO AL BUS: “GLI AGENTI DICEVANO CHE ERA SOLO UN CONSIGLIO, UN MODO PER ALLEGGERIRE”
M. ha solo 21 anni, è una giovane donna che studia Giurisprudenza all’università di Tor Vergata, conosce il posto che deve avere la legge in una società civile. L’altra sera era a pochi passi dai bianchi italiani che volevano bastonare i neri, gli stranieri d’Africa, imputati di aver preso a sassate due autobus di linea e reso invivibile Corcolle, borgata confinata ai margini della Capitale, nella punta a est che inonda di cemento la Prenestina e la contorce fino a saturarla di traffico. M. ha visto alcuni suoi concittadini prendersela con i neri, soprattutto con un tizio ghanese, mercante pacifico di collanine. Ha visto che la protesta era monitorata da due pattuglie della polizia. Ha però sentito la voce di un poliziotto che dissuadeva un dimostrante con queste parole: “Ve li lasciamo domani. Adesso c’è troppa gente”.
M. È SBIANCATA: “Stavo vomitando per il disgusto, provavo vergogna, quegli agenti mi sembravano simili al gruppo di facinorosi. Ho pensato: questi se non avessero la divisa farebbero esattamente ciò che i violenti stanno facendo, gonfiare di botte un nero, uno a caso. Mi hanno detto che la frase valeva come consiglio, era un modo per stemperare, alleggerire, ridurre il contesto violento e infine disperderlo. Ma bisogna calcolare il peso delle parole, e giudicare se quella gente inferocita non potesse travisare quel consiglio e prenderlo invece come un via libera ai pugni e alle spranghe”. Il ghanese è finito all’ospedale per le botte, senza che gli uomini in divisa riuscissero a sottrarlo ai calci (testimonianza di F. donna, italiana, di giovane età), l’assembramento si è sciolto fornendo ai giornali la notizia ghiotta della rivolta dei bianchi contro i neri. Siamo a Corcolle, periferia est di Roma, quadrante urbano che vive ai margini, oltre il Grande raccordo anulare. Sono i pini marittimi a dare il benvenuto, e le villette che costeggiano la parte alta della borgata, sorta cinquant’anni fa in modo abusivo ma miracolosamente ordinato, a denunciare la distanza che separa l’apparenza dalla realtà. Cosa è successo qui tre sere fa? Secondo le cronache un autobus di linea sarebbe stato assalito da una umanità dolente e violenta. L’autista, una ragazza neanche trentenne, è stata bersaglio di un’ira funesta e improvvisa. Umanità migrante, facce di neri, gente disperata che frequenta le strade della borgata. Il primo assalto andato a vuoto, un secondo assalto e infine la protesta dei residenti italiani che, indignati, hanno reagito. Fin qui l’apparenza. Corcolle conta diecimila abitanti. Le strade sono larghe e si sviluppano a scacchiera. Ci vivono gli italiani, soprattutto operai, migranti calabresi, campani, veneti, siciliani. Un appartamento costa centotrentamila euro, quando nella prima periferia di Roma il valore è circa il doppio. Con duecentomila una villetta a schiera, il sogno di tutti. Negli anni l’immigrazione si è ampliata e il sud del mondo ha fatto l’ingresso. Nigeriani, ghanesi, poi cinesi, poi rumeni. “La convivenza è stata sempre assicurata. Noi soffriamo invece la lontananza da Roma e il completo disinteresse verso questa borgata. Non tutte le case hanno ancora l’allaccio alla rete fognaria, manca una palestra, non abbiamo una scuola media che accolga tutti i nostri ragazzi, ogni volta che piove ci allaghiamo perché siamo sotto la linea d’acqua dell’Aniene. Non esistono servizi comunali, o giardini, o cinema”, dice Danilo Petrucci, il presidente del comitato di quartiere.
VERO, NON ESISTE niente. Roma si ricorda di Corcolle quando pensa a una discarica. Oppure quando deve sistemare i migranti richiedenti asilo. Corcolle è la Lampedusa di Roma, circondata dai centri di trattenimento e identificazione. Uno è qui, via della Novafeltria. Un altro a Fossa del Loaso, al Villaggio prenestino, poi ancora a Roma est, a Colle Cesarano, a via di Rocca Cecina. È un flusso ininterrotto di corpi che vanno e vengono dalla Capitale. Partono all’al ba e tornano a sera. Sono i clienti della linea 508 dell’Atac, bus che li trasporta fino alle porte del centro storico. Ma passa quando può, e a volte non si ferma quando dovrebbe. Magari è successo proprio tre sere fa. L’autista, impaurita dal numero delle persone da far salire, e forse dal buio della prima sera, ha accelerato spaventata. Ha sentito un botto e si è fermata. Ha chiamato il capoturno che gli ha chiesto di tornarsene di corsa nella sede Atac. Marcia indietro e di nuovo i migranti, cambiato verso, hanno avanzato la richiesta. Di nuovo no. Da qui l’ira e anche la violenza ingiustificata. Le fiamme della collera, quando la crisi economica si fa così dura, si sono presto fatte alte. Sul banco degli accusati i migranti del centro di prima accoglienza (che sta per essere svuotato), poi la giustizia di strada ha preso di mira il colore della pelle. Botte a prescindere, finalmente.
da: Il Fatto Quotidiano 24 settembre 2014