Vedeva il Colosseo, ora solo le sbarre

SCAJOLA: DALLA CELLA DELL’83 A QUELLA DI OGGI. PASSANDO PER VIMINALE, IL G8 DI GENOVA E IL “ROMPICOGLIONI” BIAGI
C’è una logica anche nel paradosso e un destino nel controsenso. Il percorso circolare di Claudio Scajola è un indizio vitale della sua personalità prosperosa e tragica. Un carcere all’inizio della straordinaria scalata politica (1983) e un carcere a fine carriera (2014). Una specie di terra promessa, luogo del ritorno: cenere eri e cenere ritornerai. Quei poliziotti che ieri lo hanno condotto a Regina Coeli sono gli stessi che qualche tempo fa gli si facevano sull’attenti, che lo scortavano, tutelavano, onoravano con le mille auto blu dell’imperiale stagione del potere. E il volto di Scajola che guarda basito i giornalisti convocati apposta e perfidamente dalla Dia, è lo stesso che risponde imperturbabile alla domanda: qualcuno ti ha pagato la casa al Colosseo?


“A MIA INSAPUTA”, il meraviglioso controsenso logico con cui tentò di abbozzare la difesa, è divenuto poi metafora dello stile italiano, cifra di quel che siamo e al fondo restiamo. Bisogna dire che le manette sono spesso una virtù provvisoria della nostra giustizia e aggiungere per correttezza che Scajola è stato assolto (primo grado) dall’accusa di essersi fatto corrompere. Resta che di sé opportunamente ha detto: “Sono un peccatore”. E infatti da qualche tempo tutti gli stavano alla larga: persino Berlusconi aveva rifiutato di ingaggiarlo di nuovo. Lui, Scajola detto sciaboletta per quel suo piglio militaresco, il piacere di comandare e di dare legnate, era divenuto un problema. Puzzava come il pesce lasciato troppi giorni in frigo. Scia lunga, odore acre. Veniva acclamato come gran facitore di tessere, democristiano allevato alla scuola di Paolo Emilio Taviani, suo padrino di cresima, connettore di coscienze, asfaltatore di oppositori.
COL LINGUAGGIO crudele e sporco di chi sa che la politica è sangue e merda (“soprattutto merda”, garantiva lui) ha avanzato nella carriera godendo di una famiglia imbullonata nel sistema di potere della sua città: Imperia. Sindaco il papà Ferdinando, sindaco il fratello Alessandro, sindaco lui. Andava e veniva da Albenga e l’aeroporto apriva i cancelli per lui, e li chiudeva per lui. Soldi di Stato regalati prima ad Alitalia e poi ad Air One per omaggiare il principino ligure e riservare un volo quotidiano da Roma. Finché è stato potente l’aereo decollava puntualmente. Vuoto partiva e vuoto ritornava. Ministro, superministro, presidente del comitato di presidenza di Forza Italia, prima ancora responsabile dell’organizzazione. Sciaboletta, cioè Scajola, cioè l’onnipotente. È stato ministro alle Attività produttive, poi riassunte nella dizione di Sviluppo economico, è stato al Viminale come si sa, e anche grande attuatore del programma di rinascita berlusconiano. Ovunque sia andato ha fatto guai. E qualche volta di più. Purtroppo lo avemmo ministro dell’Interno al tempo del G8 di Genova, e fu lui che ordinò ai poliziotti di sparare. “Diedi ordine, nel caso fossero entrati nella zona rossa di sparare”. Che piacere quella violenza di Stato, e che soddisfazione quella spedizione punitiva nella scuola dove dormivano ragazzi inermi. Scajola batteva i pugni, comandava, licenziava, intimoriva, decretava. Se lo ricordano le segretarie di Forza Italia alle prese con i suoi brevi ma intensi deliri caratteriali. Era fumantino, scudisciava, espelleva, obbligava i clienti a stare in fila e attendere il turno. A Berlusconi è molto servito un uomo d’ordine come lui. Certo un po’ eccessivo. Per esempio gli scappò di dire che Marco Biagi, il giuslavorista bolognese assassinato da un commando terrorista, fosse “un rompicoglioni” perchè chiedeva e richiedeva una scorta. Si sentiva pedinato, avvertiva il pericolo. Scajola gliela rifiutò, anzi gliela revocò. Quell’epiteto, “rompicoglioni”, lo condusse ancora una volta alle dimissioni.
È STATO dunque Scajola il più grande nemico di Scajola. Non i giudici, non la Dia, non la famiglia. Lui, solo lui. Sembra che abbia venduto la casa al Colosseo, ma non ha lasciato alle ortiche nessuno dei suoi vizi. Ritrovarselo, oramai emarginato e sconfitto, stratega – dobbiamo presumere anche in virtù della sua esperienza al Viminale – della latitanza dell’ex deputato Matacena da Reggio Calabria, è l’ultima prova che Scajola è come l’acciao inox: inossidabile. Quel che era è rimasto. Ieri è rientrato in quella celletta che conobbe 31 anni fa. 

da: Il Fatto Quotidiano 9 maggio 2014

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