Queste sono le brevi memorie di Miguel Gotor, l’intellettuale che con l’ansia del consigliere entusiasta e fidato ha vissuto la crudele debacle politica di Pierluigi Bersani. “Mi avete chiamato spin doctor, intendendo me come lo stratega, l’esperto di comunicazione non so cos’altro. Ero invece un ufficiale di collegamento tra il gruppo che lavorava ai programmi del governo Bersani e il partito. Lo specifico perchè è giusto ridare a ciascuno il ruolo e la responsabilità che si è assunto. Sapevo e so che il nostro mondo è fatto di fortune repentine e non ho nulla di cui dolermi. Ho fatto ogni cosa per evitare lo scenario che poi si è impadronito della realtà. Dunque non sono pentito, non ho pianto, non sono demoralizzato né distrutto. Avevo ogni cosa ben chiara”.
CHIARA, LEI DICE. Si vota un programma elettorale per il cambiamento, al quale immagino avrà offerto qualche spunto originale, e ci si ritrova con il Cavaliere statista. “Riavvolgiamo il nastro. Ero tra i più pessimisti anche prima del voto: ritenevo che anche un 34 per cento e una maggioranza sia alla Camera che al Senato sarebbe stato un risultato risicato. Ci avrebbero sparato tutti addosso, e invece di cambiare il Paese saremmo potuti naufragare dopo una decina di mesi. Figurarsi dopo il voto e quel deludente 29 per cento, con l’irruzione di una terza forza e la rottura dello schema bipolare. Un movimento che raccoglie il 25 per cento non è un incidente della storia, è una presenza che resterà negli anni. L’unica possibilità per tenere fede al nostro impegno era un governo di minoranza. Bersani non è stato un pazzo né un visionario, sapeva benissimo che per evitare il trauma che oggi patiamo c’era solo quella strada stretta da seguire. Lui ha sentito una tale responsabilità su di sé, per questo non ha gettato la spugna, al punto di affrontare quei 55 giorni come una via crucis”. Sono gli stessi giorni della prigionia di Moro anche se è imparagonabile quella tragedia a questa. “Bersani è di una moralità indiscutibile e non è uomo buono a ogni progetto. Per evitare la strada delle larghe intese ha scelto questa via che a lei sembra un immolarsi sulla strada della irrealtà”. Volevate i voti del M5S. “Volevamo l’astensione loro. Abbiamo parlato al loro elettorato e abbiamo spiegato le nostre ragioni. E una crepa si è manifestata, una riflessione era in atto, un primo risultato raggiunto”. Astensione al Senato significa voto contrario. “C’era anche l’ipotesi di cambiare il regolamento in quel ramo del Parlamento. Avremmo restituito ai senatori il diritto a scegliere la neutralità che oggi è praticamente negato”. Era spaventato per le sorti di un solido governo di maggioranza e neanche un alito di paura per un miserello esecutivo di minoranza? “C’era altra strada? C’era il buco nero dell’accordo con Berlusconi. Certo sarebbe stato un esecutivo da combattimento. Avremmo tentato e sfidato la sorte”. Vagheggiavate il trono mentre i vostri compagni preparavano i pugnali. “No, la valutazione era di realizzare nella Convenzione per le riforme il coinvolgimento di tutte le forze politiche, da Berlusconi ai Cinquestelle. Quello era il luogo propulsivo del programma. Quello che avrebbe deciso la Convenzione avrebbe fatto da stella polare per il governo. Nel terzo anello un presidente della Repubblica che riuscisse a tenere uniti i primi due. Eravamo quasi giunti in porto”.
CON FRANCO MARINI sareste giunti in porto? “Io dico di sì”. Il suo era un leader così forte che non si era accorto che il partito andava per i fatti suoi. “Vero, quello è stato un trauma. La doppia botta Marini-Prodi ha azzerato e messo al tappeto tutti noi. Io non lo credevo possibile. C’erano state due direzioni del partito che avevano confermato linea e leadership”. Chi vi ha accecati? Come avete fatto a sottovalutare un fenomeno di rifiuto così limpido? E come potevate ritenere che la figura di Marini potesse essere simbolo di cambiamento? “Col senno di poi ammetto il torto. Ma Marini per noi dava la garanzie di potere accompagnare questa fase in virtù della sua esperienza”. Avete azzerato il Pd, l’avete reso un luogo indistinto, un coagulo di odi e rancori. “Il partito va rifondato”. Il partito? Esistono due, forse tre partiti. “E io dico che non si dividerà”. Sta nascendo una grande e nuova Democrazia cristiana. “Esiste una pressione verso l’accentramento perchè la divisione tra berlusconiani e antiberlusconiani sta svanendo, sta per essere superata. È una cosa che cambierà la politica e anche il giornalismo, è la più grande opportunità che ha Enrico Letta”. Il vice di Bersani, dunque nella squadra del cambiamento, oggi è titolare dell’esecutivo della restaurazione. “La penso diversamente”. A ciascuno il suo pensiero, ma l’idea che sia stato fatto una grande frittata resiste oltre ogni auspicio. “Il rifiuto delle larghe intese era più mio che di tanti altri, la paura di questa prospettiva, ci ha guidati fin dall’inizio e abbiamo fatto ogni cosa per scongiurare questa eventualità”. Siete parsi velleitari. “Siamo invece stati coraggiosi. Bersani ha dovuto affrontare un periodo nel quale il leader del movimento con cui intendeva interloquire si mascherava, faceva del situazionismo, correva in spiaggia come Batman. Ricorda?”. Ricordo, ma forse Bersani non era il candidato adatto per legare M5S a voi. “Lui aveva avuto i voti, lui si è preso la croce”. Il risultato, direbbe Crozza, è questo grande mappazzone. “Non siamo riusciti ad eleggere un capo dello Stato e se avessimo fatto convergere i voti su Rodotà, Monti e Berlusconi ci avrebbe fatto eleggere la Cancellieri”. Gotor non si pente, né piange. “Sono nuovo di questo mondo e so che le fortune sono repentine, fatte di alti e di bassi. Credo di essermi impegnato in questi mesi per una causa giusta accanto a un uomo di valore. Le basta?”.
da: Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2013