RITA LEVI HA CONOSCIUTO LE PERSECUZIONI RAZZIALI, L’ESILIO E LE INFINITE DIFFICOLTÀ DE L L’ESSERE DONNA E STUDIOSA. L’ITALIA HA PERSO UN MODELLO DI RIGORE INTELLETTUALE
Il ricordo di Stato, la camera ardente, perfino le presenze istituzionali più imbarazzate e ipocrite accompagnano Rita Levi Montalcini, grande scienziata e grande italiana, nel viaggio verso la cappella di famiglia del cimitero ebraico di Torino. Un secolo e più di vita, 103 anni sono un altro record, per una donna così fragile e così forte. Ha vissuto la guerra e due mondi, ha conosciuto la violenza fascista, la paura, l’esilio, l’emancipazione e infine l’onore. Prima in tutto: nella forza del coraggio, nella sconfinata fede nella scienza e nel suo mestiere di ricercatrice, nel ruolo di donna. “Io sono anche mio marito”. L’orgoglio maestoso, la fierezza del ruolo e la convinzione di una battaglia assoluta per l’identità femminile l’hanno trasformata nel lungo tempo della sua opera ad emblema di come una donna possa fare tutto e sempre essere prima. Nasce a Torino nel 1909 da famiglia ebrea, dopo la laurea e nel pieno delle leggi razziali, che ne segnano il carattere e l’identità politica, decide di lasciare l’Italia. Va negli Stati Uniti e lì prosegue, arricchendola, la sua ricerca sui fattori di contrasto alle degenerazioni nervose e alle altre patologie neurologiche. Va poi in Brasile. L’Italia la conosce nel 1986, quando viene chiamata a Stoccolma per ricevere il Nobel per la Medicina in ragione della scoperta del fattore di crescita delle fibre nervose. È quella cerimonia solenne che rimanda nelle case del nostro Paese questa donna minuta e già anziana, ma integra nel suo portamento, dalla voce flebile ma dalle convinzioni ferme. Non ha il volto dell’amica, parla da professoressa. È la sua vita, la sua intelligenza a rimarcarne sempre la capacità, e la voglia di segnare una distanza e obbligare all’ossequio, al rispetto.
SE ESISTONO figure straordinarie è perchè esistono storie umane e professionali come la sua. Confessò di aver deciso a tre anni di non desiderare di sposarsi, mai avrebbe potuto piegarsi all’unico destino che attendeva allora ogni donna: essere una brava e feconda fattrice, vivere nell’ombra e nella subalternità al maschio. Non le è mai sfiorato di aver avuto torto a non legarsi a un uomo, “eppure ci sono stati innamoramenti e amicizie”, a non aver voluto figli. La sua famiglia è stata la sua fondazione e la sua forza è stata quella di non essersi mai sottratta al dovere della militanza: ha fatto ogni cosa per portare risorse alla ricerca, e utilizzato ogni sistema (libri, interviste, racconti) per invocare più attenzione, più devozione verso la scienza. L’unica fede possibile. A Rita Levi Montalcini le donne di tutto il mondo devono un ricordo e un ringraziamento. Con lei si è fatto emblema il talento femminile di orientare e governare lo sviluppo dell’intel ligenza collettiva, la forza nel coraggio di difendere l’integrità personale, l’enorme capacità di illustrare con i fatti, e non a parole, l’etica pubblica. Era quasi cieca e quasi centenaria eppure mai mancava all’appuntamento con il Senato, l’ultima prestigiosa fatica a cui era stata chiamata dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che nel 2001 l’aveva nominata senatrice a vita. A lei non fu risparmiato niente neanche in quell’incarico che doveva essere unicamente il riconoscimento per una vita spesa ai più alti livelli.
NEL 2006 il governo Prodi si trovò infatti nella condizione di dover richiedere ai senatori a vita il voto per resistere a palazzo Chigi. E il suo mai mancò. Rita Levi Montalcini era così convinta e partecipe che non lasciava mai, nei momenti delicati e a volte drammatici delle votazioni, il suo scranno. Era lì sempre. E fu lì quando l’opposizione di centrodestra (Renato Schifani capogruppo) la copriva sistematicamente di insulti. Fu lì ad assistere impassibile a quell’enorme e crudele dileggio, alle stampelle che Francesco Storace portò in aula. Lei sorrise e fiera commentò: “Gli insulti scivolano come l’acqua sulla pelle dell’anatra”. Sempre con la schiena dritta, anche se gli anni conducevano il suo corpo a piegarsi. E sempre con lo sguardo più in là degli altri, anche se i suoi occhi erano malati. Era una donna di cent’anni e miracolosa la sua capacità di dedicarsi senza risparmio agli studi e all’impegno politico. La sua giornata iniziava alle sei del mattino e finiva intorno alle undici della sera. Un pasto caldo a pranzo, un’arancia o una mela per cena. Ha convissuto con sua sorella “la mia Paola adorata” e a lei ha devoluto ogni attenzione familiare. Senza mai stancarsi di sorridere al nuovo. Quante Levi Montalcini servirebbero all’Italia! Oggi che non c’è più riprende a vivere – almeno nel ricordo – la sua testimonianza e il resoconto di una vitalità immensa, di un talento insopprimibile. La professoressa è stata una forza della natura, una grande quercia che ha salutato albe e tramonti.
da: Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2013