La reputazione è quel deposito di stima e fiducia che ciascuno di noi accumula in ragione dei suoi comportamenti, delle competenze che ha mostrato nel suo impegno professionale. Di quel che fa e dice. Di come lo fa e di come lo dice. Un virologo sarà maggiormente ascoltato in ragione delle valutazioni che ha espresso sulla pandemia e del riscontro che le sue parole hanno avuto nei fatti per come si sono svolti. Ma esiste anche una reputazione inversa, che non vogliamo vedere ma che c’è. Per esempio quella di un criminale crescerà proprio in ragione dell’efferatezza dei crimini commessi. Anche un demagogo ha qualcosa da vendere e molto da acquistare al mercato della reputazione: può dire cose insensate ma se le infila con ordine e con apparente logica l’insensatezza diviene persino virtù e ciò che dice e poi contraddice può riscuotere un successo enorme.
Il nostro grande problema è – prima di ogni altra considerazione – capire cosa vogliamo. Abbiamo capito, per esempio, se abbiamo bisogno di ascoltare scienziati senza scienza? E abbiamo capito, andando più sul concreto, perché non siamo riusciti a spendere questa estate un miliardo e duecento milioni di euro per rafforzare la medicina territoriale e le aree di soccorso ospedaliero? E se non lo abbiamo capito c’è stato qualcuno al posto nostro (un giornalista, per esempio) che ha chiesto conto? Allora: se il virologo ci ha fatto sbandare, il politico ci ha preso in giro, il giornalista non ha chiesto ciò che doveva, non è per caso che quel virologo, quel politico, quel giornalista sanno che a noi interessa poco cosa si fa e molto di più cosa si dice?