A Chiaromonte mister Banfield non ha capito nulla

Su questo sperone di roccia che domina la valle del Sinni, prima che la Lucania divenga Calabria e la catena del Pollino unisca i corpi e i dialetti, da più di sessant’anni si patisce lo stigma dell’immoralità. Anzi, della “amoralità”. Da quando cioè, e si era nel bel mezzo degli anni cinquanta, un sociologo americano, Edward Banfield, approdò a Chiaromonte, grazie alle indicazioni della moglie, l’italiana Laura Fasano, e di alcuni amici, tra cui il meridionalista Manlio Rossi Doria. Venne per studiare l’Italia del sud, affamata dalla guerra. L’Italia contadina, nascosta e con la schiena piegata, lontana da Roma e lontanissima da Milano. L’Italia perduta. Tre anni di soggiorno, “ma senza mai imparare la lingua. Parlavamo, la moglie traduceva, lui appuntava”, ricorda Giovanni Percoco, il maestro del paese, la memoria colta e lucida, anche oggi che gli ottant’anni sono stati raggiunti, della comunità, “ma secondo me ci capiva poco”.

Quando Banfield tornò in America l’università dell’Illinois gli stampò la ricerca che poi venne tradotta in Italia: “Le basi morali di una società arretrata”. E nella ricerca quel concetto, appunto lo stigma, col quale bollò Chiaromonte, che nel libro chiamò Montegrano: “Il paese del familismo amorale”.

Non c’è senso comune del bene comune, non c’è responsabilità collettiva, ma solo interesse privato, solo custodia degli averi della propria famiglia. Anzi della supremazia della Famiglia. Oltre lo Stato, prima ancora dello Stato. Ogni regola piegata a questo principio, ogni azione a questa convenienza. Nessuna moralità pubblica, ma solo virtù privatissime e svergognate.Continue reading

Plexiglas, discoteche: “Lobbisti somari e colpe della stampa”

ANSA/Andrea Fasani

 

 

Molti soldi già spesi, moltissimi altri da spendere. E dunque: piatto ricco mi ci ficco. La pandemia sta producendo una leva straordinaria di lobbisti che – arruolati in tutta fretta – mostrano però segni inequivoci di competenze ora confuse ora approssimate. La nostra conversazione con Pier Luigi Petrillo, docente di teoria e tecniche del Lobbying alla Luiss, prende in esame l’esito sfortunato di alcune azioni di dirottamento della spesa pubblica. Vengono anche rilevate però soluzioni vincenti di pressione.

“Mi faccia dire che la rappresentanza degli interessi diffusi non solo è legittima ma, se condotta con trasparenza, aiuta il decisore politico ad allocare nella giusta misura le risorse finanziarie”.

Professore, qui prendiamo in esame i lobbisti che zoppicano. La sua dev’essere una sintetica lezione di recupero.

Il più clamoroso tonfo mi sembra possa annoverarlo l’industria del plexiglas.

Fantastico quel cubo di plastica trasparente posizionato sulla spiaggia dove rinchiudere i bagnanti e farli arrostire.

Non è da meno il cubo scolastico. Plastica a scuola più che libri.

Idee fuori dalla realtà accreditate come plausibili.

Per accreditarle come tali c’era bisogno di una seconda figura di riferimento: il giornalista. Il disegno dell’architetto anonimo che immagina il plexiglas al posto dell’ombrellone viene ospitato, e dunque reso plausibile, dai mezzi di informazione. Le ragioni possono rinvenirsi prevalentemente in una connessione diretta tra lobbismo e giornalismo. Altre volte la battaglia politica o la linea editoriale sviluppa sull’idea eccentrica una campagna d’opinione. Più estrema e sconveniente appare, meglio è per chi la contrasta.

In quel caso si voleva vendere il plexiglas.

Il naufragio è stato causato da un lavoro lobbistico lacunoso che ha proposto soluzioni impraticabili a problemi veri, come il distanziamento in classe e nei luoghi di ritrovo.Continue reading