Le Regioni sono da chiudere. Da abolire. Da buttare nel cestino dei panni sporchi. Le Regioni sono la causa della nostra condizione economica, sono il luogo dove per ogni euro che si spende cinquanta centesimi se ne vanno in porcherie (o quasi). Le Regioni non hanno dignità istituzionale, e neanche identità. Con la nascita delle Regioni il debito pubblico è salito vertiginosamente. Non una delle materie affidate alle Regioni sono adempiute con efficienza ed efficacia. Il regionalismo è divenuto il luogo di compensazione delle sotto-correnti, di potentati locali più o meno irrispettabili, la casa di ambiziosi e volgari crumiri della politica. Se volevamo la prova del nove, eccola servita: cinque regioni (Friuli, Veneto, Sardegna, Lombardia, Piemonte) hanno appena approvato in consiglio regionale la proposta di referendum abrogativo della attuale legge elettorale. La richiesta è pervenuta loro da Matteo Salvini dieci giorni fa. In dieci giorni (dieci!) sono riuscite a realizzare ciò che non avrebbero mai fatto in mille. Ognuna di esse, di fronte a necessità e urgenze del territorio, dalle più banali alle più gravose, è capace di farfugliare per mille giorni, dibattere per altri mille, concionare per mille ancora. Ma, essendo istituzioni di quarta classe, senza dignità della propria funzione e indipendenza, è bastato un telegramma del capo per approvare ogni cosa, naturalmente senza capirla, senza un minuto di discussione, di dibattito, di confronto.
Qui non è in causa Salvini. Poteva essere un altro leader di partito che aveva fretta, per ragioni legate al proprio progetto politico, e il risultato sarebbe stato identico. No, non è Salvini il problema. Qui in causa è la figura di camerieri che questi consiglieri regionali fanno, è l’esercizio della servitù come esclusiva funzione legislativa.
E’ per noi il monito a fare l’opposto di quello che costoro, i camerieri, ci chiedono.
Altro che autonomia differenziata, altro che più poteri!
E’ l’ora di radere al suolo le Regioni: farne un mucchio e mandarle in discarica.
A Riace la vendetta di Cosma e Damiano
Finalmente una buona notizia. Piccola quanto si vuole ma buona. Il sindaco di Riace è stato dichiarato ineleggibile dal ministero dell’Interno. Si chiama Tonino Trifoli, è leghista. Non siamo sicuri ma qui c’è forse la manina dei fratelli Cosma e Damiano. Erano medici e tutta la loro vita l’hanno spesa a curare i poveri, a fare accoglienza, a sostenere i deboli contro i forti.
Così ferma e decisa la loro volontà di disporre ogni minuto del loro tempo a favore dei bisognosi (Gratis accepistis, gratis date” (Mt 10,8), che quando Damiano accettò da una contadina tre uova come ricompensa per le cure offerte, Cosma – assai mortificato – chiese che le sue spoglie fossero sepolte lontane da quelle del fratello. La Chiesa li ha fatti santi. E il sindaco attuale li aveva scelti come testimonial del nuovo corso di Riace. Da paese dell’accoglienza, come l’ex primo cittadino Mimmo Lucano aveva voluto che fosse scritto nel cartello di benvenuto, a paese di “Cosimo e Damiano”. Il sindaco Trifoli non solo ha mutato il nome a Cosma ma l’ha fatto apparire, in ragione di una ignoranza evangelica di tutto rispetto, come il buttafuori di Riace.
Cosma sarà pure santo ma se l’è legata al dito. E così…
Giancarlo Giorgetti, leghista Quattro stagioni
È il vero unto del Signore. Qualunque cosa succeda, qualunque porcheria condivida, lui è l’unto, lui è il buono, il competente e naturalmente onesto. Giancarlo Giorgetti è un signore che ha studiato alla Bocconi, non alza la voce né bestemmia. Partecipa in silenzio alle urla, magari rievoca a mente i cori razzisti, la politica dell’odio, le buffonate da palco, le politiche sciagurate
Lui ne esce fuori sempre, bello e pulito. Non sappiamo quale sia la dea che lo accompagna nella fortuna. È stato fedelissimo di Bossi, fin dai tempi dei fucili della val Brembana da caricare a pallettoni contro Roma. Fedelissimo quando il monarca assoluto utilizza il partito come cassaforte familiare, quando permette che i soldi pubblici vengano dirottati in tasche private, negli affari che dirottano 49 milioni di euro verso lidi sconosciuti. Dove sono finiti? Vattelapesca!
Non lo sa di certo Giorgetti, amico di Maroni, il successore di Bossi, e consigliere di Salvini, il successore di Maroni. La Lega sceglie di accettare che muoiano in mare i migranti? Solo Salvini è sul banco dell’accusa, Giorgetti sta accucciato, intento a non farsi notare troppo. La Lega non pronuncia più una parola contro la corruzione, e neanche un sospiro contro il malaffare. E Giorgetti? Muto come un pesce. Degli evasori italiani, che sono parecchi davvero, nessun cenno. Giorgetti dorme. Anzi sostiene la deprecabile flat tax: chi è ricco (e magari un bell’evasore) ci guadagna una tombola, chi è povero se la prende in saccoccia.
Giorgetti però è stimatissimo, quindi deve essere nominato commissario europeo. E infatti Salvini lo indica a Bruxelles. Ma a lui, come Eduardo in casa Cupiello, non piace più il presepe. Rinuncia e inizia a rompere quotidianamente le balle a Salvini: bisogna staccare la spina al governo. Quando il segretario finalmente la stacca, lui, il prode Giorgetti, si fa venire il mal di pancia. Ieri a Pontida le urla, le offese, le accuse di un popolo trascinato all’odio, educato anzi all’odio. Salvini che fa, si scusa? Salvini. E Giancarlo Giorgetti? Lui se c’era non ha visto, se ha visto non ha sentito, se ha sentito non ha capito.
Per un mese mister Ancelotti ministro delle Infrastrutture
Carlo Ancelotti dovrebbe essere subito nominato ministro alle Infrastrutture. Ne ha i titoli, anche la competenza, e persino quel sentimento di indignazione che aiuterebbe ogni uomo politico a far bene il proprio mestiere. L’allenatore del Napoli si è indignato e anche parecchio per le condizioni degli spogliatoi dello stadio San Paolo. A poche ore dalla gara non un lavabo, un piatto doccia, un armadio al suo posto. Ancora tanto, troppo da fare. Inspiegabile, ha accusato Ancelotti, il comportamento delle autorità pubbliche che avevano promesso e non hanno mantenuto.
Le parole del mister hanno suscitato una grande eco, i tifosi si sono incavolati, la città si è consegnata allo stupore e la politica ha assicurato, in un atteggiamento finalmente contrito, che la promessa in un modo o nell’altro verrà onorata. La ditta è al lavoro, notte e giorno. I calciatori potranno farsi la doccia, è certo.
Se potessimo affittare Ancelotti, il suo corpo e anche il suo sentimento, l’indignazione che gli viene da dentro, lo stupore col quale spiega che se il contratto si firma poi si onora, lo traghetteremmo al ministero delle Infrastrutture. Così la sua indignazione aumenterebbe ancor di più per tutte le opere che non si completano, per i depuratori che non depurano, per gli appalti appesi al tempo dei fancazzisti, di coloro che annunciano e poi rinunciano.
Se Ancelotti fosse ministro, e se i tifosi del Napoli – per il tempo strettamente necessario – si trasformassero anche in cittadini italiani, con diritti da esercitare e doveri da adempiere, Napoli non sarebbe quella che è, e anche il Sud cambierebbe volto, e il Nord penserebbe a sperperare di meno.
Con Ancelotti ministro lo spreco inaudito del Mose di Venezia, la grande e inutile opera che succhia miliardi senza difendere la città dall’acqua alta, sarebbe stata mai possibile? Tignoso com’è avrebbe voluto vedere, capire, correggere e anche magari bocciare. E con Ancelotti ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti i treni che assomigliano a carri bestiame e che ancora sopravvivono nel meridione sarebbero già al cimitero. E le scuole cadenti, e gli ospedali ingiuriati dagli scandali.
Ma purtroppo per noi italiani l’indignazione e anche la fedeltà alla parola data hanno bisogno di contesti esclusivi. Si fa il massimo se c’è la Serie A di mezzo. Il minimo se si tratta dell’Italia, che è serie B.
E se Salvini chiederà (con un referendum) il ritorno al maggioritario?
È una possibilità, per adesso solo un’ipotesi affacciata nelle pieghe di un discorso rombante e avvelenato. Potremmo cioè essere chiamati tra un anno o poco più a votare per l’abolizione della legge proporzionale e dunque per il ritorno al maggioritario. L’ennesimo referendum elettorale. Questa volta però promosso da Matteo Salvini. Ne ha fatto un cenno distratto nel suo intervento al Senato, ma è bastato per illustrare un’altra possibile e assai più insidiosa strategia di attacco al governo giallo-rosa.
Proprio ieri, alle 18,30, mentre era ancora in corso il voto di fiducia al Conte2, le delegazioni di Pd e Cinquestelle si sono incontrate per mettere a punto un sistema di salvaguardia che il Pd chiede a fronte del sì alla riforma costituzionale che da qui a fine mese sancirà la riduzione di ben quattrocento poltrone parlamentari. È questo infatti l’obiettivo più caro al movimento grillino. È il provvedimento bandiera anticasta: i deputati passeranno da 630 a 400 mentre i senatori saranno ridotti a 200, dagli attuali 315 (oltre i cinque senatori a vita).
Proprio ieri, alle 18,30, mentre era ancora in corso il voto di fiducia al Conte2, le delegazioni di Pd e Cinquestelle si sono incontrate per mettere a punto un sistema di salvaguardia che il Pd chiede a fronte del sì alla riforma costituzionale che da qui a fine mese sancirà la riduzione di ben quattrocento poltrone parlamentari. È questo infatti l’obiettivo più caro al movimento grillino. È il provvedimento bandiera anticasta: i deputati passeranno da 630 a 400 mentre i senatori saranno ridotti a 200, dagli attuali 315 (oltre i cinque senatori a vita).
Il provvedimento costituzionale è giunto all’ultimo stadio: quarto voto della quarta lettura. Il Pd per approvarlo chiede in cambio il ritorno al proporzionale puro, oggi ancora corretto in una sua quota da un premio di maggioranza. I grillini non sono mai stati ostili al proporzionale, anzi ne hanno rivendicato sempre il valore. Chi potrebbe perderci? Con un sistema che obbliga alle alleanze e che determina, come è appena successo, nei rapporti dentro al Parlamento le soluzioni di governo, la Lega, che punta alla acquisizione totalitaria della rappresentanza del centrodestra, di un nuovo polo sovranista, sarebbe la formazione più penalizzata.
Dunque il ricorso al referendum sulla prossima legge elettorale proporzionale potrebbe rivelarsi un’arma parecchio efficace. In tempi di post politica, di completa ed esasperante personalizzazione dei partiti, la domanda di affidare a un uomo solo il comando, attraverso la chiamata del popolo (vince chi ha un voto in più) ha un suo innegabile appeal e potrebbe consegnare a Salvini, la cui firma solo due anni fa è servita per approvare la legge attuale conosciuta come Rosatellum (insieme a Pd e Forza Italia, contro invece i grillini) la guida dello schieramento che vuole il ritorno al maggioritario. Avendo gli italiani la memoria di un criceto, questa sarebbe salutata come il cambiamento assoluto, il nuovo che avanza, eccetera eccetera.
Migranti, un cardinale al governo: perché l’arcivescovo Zuppi sarebbe la nomina giusta
In queste ore il presidente del Consiglio incaricato ha un gran daffare. E tra le mille cose e i mille pensieri anche una cinquantina di nomi da assegnare per altrettante poltrone, tra piccole e grandi, che aspettano. Gli consiglierei di allungare la lista di uno, aggiungere un ministro a quelli esistenti. Ci vuole il ministero dell’Immigrazione. Non solo per contare quelli che arrivano. Non abbiamo bisogno di un capostazione e il governo non è uno scalo ferroviario. Il nuovo ministro non ci dovrebbe solo spiegare perché arrivano, forse lo sappiamo già, ma trovare i soldi, stipulare le alleanze internazionali, definire le politiche comuni perché l’esodo almeno rallenti.
C’è una persona in Italia che lo sa fare meglio degli altri, più degli altri. E’ un prete, che per giunta da ieri è anche cardinale, quindi in confidenza col Papa e, si spera, con Dio. E’ Matteo Zuppi, fino a ieri arcivescovo di Bologna e conoscitore della terra d’Africa. Di chi l’ha assalita, di chi l’ha bucata, di chi l’ha svuotata di ogni bene. E di chi può aiutarla, dei governi locali che possono seminare speranza e un briciolo di democrazia, dei leader africani minimamente credibili. Il cardinale ci potrebbe anche spiegare di quanto è malgrado tutto ancora ricca l’Africa, e di come siamo fessi a non investire il nostro sapere laggiù e lasciare solo alle multinazionali, gli antichi predoni dell’Occidente, il tesoro su cui siedono – inconsapevoli – gli africani. Se usassimo la logica, potremmo partecipare a parte del raccolto di quel tesoro e offrire dignità a un intero continente.
Non è previsto che un cardinale sieda nel governo, lo so.
Ma sarebbe la nomina più forte, più laica, più giusta e più di sinistra che ci sia.
A me fa orrore Rousseau, la democrazia digitale, il clic. E con un clic lo spiego
Prima che muoia il nostro adorato cagnolino o anche dopo la sua dipartita regaliamo agli amici il nostro pensiero addolorato con un post. Uguale uguale a ciò che succede quando viene a mancare la mamma. Figurarsi se ci sposiamo.
In questo mondo di clic ci fa strano invece che la politica si eserciti attraverso il mouse. Diffidiamo. Diciamo no alla democrazia digitale. Alla piattaforma digitale, al voto online. Vorremmo corpi veri e piazze piene. Vorremmo, insomma, un mondo senza clic. E con un clic lo spieghiamo.
Crisi di governo e M5s, nel gioco della torre (della realtà) Grillo si salva e Casaleggio va giù
Lo spostamento d’aria prodotto da questa crisi di governo nei Cinquestelle ha lasciato in piedi Beppe Grillo e messo quasi al tappeto Davide Casaleggio. Il primo ha reagito al trauma di una sconfitta strategica, cioè l’impossibilità di promuovere il cambiamento con la forza che era parsa più affine, con un doppio passo in avanti. Lui, prima ancora di Matteo Renzi, ha intravisto nella difesa ultima delle ragioni del Movimento la necessità di provarci ancora nell’idea che la meccanica, appunto il movimento, fosse la salvezza e insieme la speranza. Mobilità come capacità di generare alleanze e produrre i fatti che dessero ragione a chi ha votato Cinquestelle. Grillo non soltanto ha spinto i suoi a non avere paura del nuovo, ad abbracciare il Pd dopo essere stati scaricati dalla Lega. Ha anche prodotto, ed è il fatto politico saliente, un cambiamento della leadership sostituendo Di Maio, che paga il fallimento dell’alleanza con Salvini, con Giuseppe Conte. Era sempre Grillo ad aver puntato su Di Maio, giovane, borghese, volitivo, con una faccia pulita e un messaggio rassicurante. Oggi, in virtù della fede nel movimento, cambia strada e cerca Conte, che possiede le medesime virtù anestetetiche del giovane Luigi, e quindi tranquillizzanti per un elettorato moderato, ma in più un background professionale e un sistema di relazioni notevolmente più larghe e solide. Non solo la giacca e la cravatta ministeriali, ma anche la pochette al taschino, segno dell’upgrade nella reputazione sociale.
La realtà, come sempre, ora si incarica di assegnare il torto e la ragione. Casaleggio è out. Se conta, conta di meno perché Beppe Grillo oggi conta assai di più.