È la rivincita delle mani sulla betoniera, della sapienza antica e povera sulle architetture multipiano e high tech. I muretti a secco sono divenuti patrimonio dell’umanità, il marchio di civiltà che l’Unesco attribuisce alle opere magnifiche della natura e dell’uomo. E quest’opera, piccola di dimensioni, minuta nell’aspetto, povera e di dettaglio, oggi diviene finalmente grande. “Con tenacia e sfrontatezza li sfioravamo da ragazzi in sella alla Vespa o al Califfone. Costeggiandoli li vedevamo fronteggiare il cemento armato delle complanari, il sistema di svincoli stradali, l’orgoglio della modernità. Per noi pugliesi, io dico specialmente a noi baresi, il muretto a secco è il canale della memoria, il presidio che il vecchio non solo esiste ma resiste con una grazia e un’arte indiscutibili”. Lo scrittore Nicola Lagioia ha trascorso i suoi anni da ragazzo con la visione di queste pietre impilate ai fianchi della strada. Ha avuto la fortuna di risiedere nel luogo che più di ogni altro ha esibito la sapienza delle mani, anche se la richiesta del riconoscimento speciale non è stata avanzata solo dall’Italia all’organizzazione culturale dell’Onu. Croazia, Cipro, Slovenia, Svizzera, Spagna e Francia hanno sostenuto e appoggiato questa candidatura, trovandosi a dover far di conto anch’essi con le pietre di confine.
L’UOMO E LA PIETRA camminano insieme. “In questo caso è la mano a vincere sulla macchina, è una prova d’orgoglio dell’arcaico, di ciò che si riteneva superato”, dice il paesologo Franco Arminio. Il muretto a secco è un’opera umile, secondaria, ma di un pregio che impone “la rivisitazione dei luoghi comuni, di una sfida vittoriosa con l’età dell’alluminio anodizzato, con le saracinesche di ferro e le insegne luminose. Noi comunque vogliamo il Frecciarossa, impianti di meccatronica, insediamenti positivi della contemporaneità. Ma dobbiamo riconoscere nella memoria, in questo caso nelle nostre pietre, una ricchezza unica e superiore”. Il muretto è dunque il segna passo, il muro di confine, “attenzione – dice l’antropologo calabrese Vito Teti (suo il bellissimo “Pietre di pane”) – i muretti non dividevano e non separavano ma proteggevano il territorio e creavano legami. Il muretto è l’affermazione di un’arte legata alla produzione, alla terra, al paesaggio costruito nel corso di una storia millenaria. È un’attenzione ai margini, al piccolo che ora diventa grande”.
LE PIETRE, MESSE l’una sull’altra, non sono un’opera primitiva. Fanno tuttora da argine, dove resistono e sono conservate bene, alle frane, agli smottamenti, ai crolli. “Il muretto è l’elemento semplice dentro l’architettura romanica che l’entroterra barese esibisce a ogni passo. Io dico – questo è Lagioia – che il muretto infatti non è una muraglia, è il contrario di un muro di cinta. Il muretto nasce e si costruisce nei territori di passaggio, attraversati da possenti migrazioni. Il muretto è la risposta opposta e contraria ai muri che si alzano per impedire e ostruire, alle recinzioni elettrificate che si erigono per opporsi a ciò che la storia considera ineluttabile: i popoli si spostano, e questo mondo deve la sua civiltà alla ricchezza di mille migrazioni”. Il muretto può dunque portare fortuna, il riconoscimento che ha avuto può contribuire a rendere meno fragile le comunità resistenti, coloro che testardamente immaginano un futuro nel luogo in cui sono nati, tra i monti, lungo il crinale appenninico, la spina dorsale dell’Italia a cui sempre più spesso rivolgiamo le spalle. Ricorda giustamente Teti: “Per resistere abbiamo bisogno di piccole utopie quotidiane capaci di cambiare il mondo anche con i segni e i materiali di un passato da riscattare”.
Da: Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018