PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE
Costruite e sarete felici! Gli arbusti edilizi di Catanzaro, le escrescenze cementizie, quelle tumefazioni dell’ambiente costringono la città a essere invasa dal brutto che a volte si fa orrido impellicciato di alluminio, a loro modo fondale della speranza e non della calunnia. Il regime calabrese, l’impotente monopolio degli spicciafaccende che hanno sgovernato, fossero di centrodestra o di centrosinistra, la Regione da quando è nata, ha convinto i suoi abitanti che un paradiso in terra anche per loro ci sarebbe stato, che comunque una pizzeria, un bar, un albergo o un negozietto segnasse la terra promessa.
La maleducazione al cemento, che trova in Catanzaro il suo capoluogo, è cosmesi che trucca le campagne e unisce le altre città. Il non finito, riduzione filosofica dell’incompiuto, è un tratto caratteristico che un fotografo e un filosofo, Angelo Maggio e Francesco Lesce, hanno illustrato con passione e competenza. “Il fabbricato non finito non è solo un elemento estetico che punteggia da cima a fondo il paesaggio calabro – spiega Lesce – ma costitutivo di uno stile di vita”.
Negli anni sessanta costruire è stato l’imperativo categorico della modernizzazione. Che significava collocare le proprie speranze nel futuro, era l’aspettativa del riscatto: “Il fabbricato non finito è un progetto che doveva realizzarsi e mai si è realizzato, è rimasto sospeso nel tempo, e ora è divenuto parte integrante del paesaggio”.
Badolato, Caulonia, Stilo, e prima il Crotonese, o Soverato se si è sullo Ionio e se ne discende da Catanzaro. Lamezia Terme se si guarda al Tirreno, la crosta cementizia delle cittadine di mare (i calabresi odiano la costa, sono gente di collina e di montagna, la cucina ne risente e il mare subisce l’inimicizia dei nativi).
Ad Angelo Maggio, il fotografo, la visione di mattoni a vista come fondale del Cristo di San Luca in Aspromonte lo convinse all’idea di realizzare un tour del non finito: rassegna visiva di costruzioni sospese, di vite affamate di speranza. Ricorda Angelo: “Andai a San Luca per mostrare ai residenti la mia foto con il Cristo e la costruzione di cemento dietro di lui e capire quale reazione producesse: quella foto piaceva tanto”.
L’industria del cemento ha avuto preminenza e sviluppo fino ai primi anni del nuovo secolo. Dopodiché la crisi e la povertà che ha generato, ha obbligato i calabresi al ritorno alla condizione di partenza: nuovamente e perdutamente emigranti. Restano dunque gli scheletri di ieri; oggi invece le nuove costruzioni sono fantasmagorici centri commerciali, spesso lavanderie perfette per la finanza creativa ed estorsiva della criminalità organizzata, realtà incoercibile e – a quanto pare – incontenibile.
Da: Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2018