Cosa ce ne facciamo dell’Europa se mette le mani in tasca?
Diceva don Milani ai ragazzi che definiva “i sovrani del futuro”: Che te ne fai delle mani pulite se poi le tieni in tasca? E noi, ditemi, cosa ce ne facciamo dell’Europa se si benda gli occhi e si lega mani e piedi pur di non prendere posizione, di non scegliere, di non aiutare, di non risolvere le contese tra gli Stati membri?
Cosa ce ne facciamo di questa Europa che nel verbale di intesa dei capi di Stato non coniuga mai all’indicativo il verbo dovere? Nessuno deve fare: se gli va, potrebbe anzi “dovrebbe”. Il “dovrebbe” è la resa alle nostre paure e ai nostri egoismi, è la premessa per il disastro prossimo venturo.
Nessuno Stato ha l’obbligo di accogliere e dividersi i migranti. Nessuno Stato ha l’obbligo di solidarizzare con l’altro. Nessuno Stato ha l’obbligo di attuare politiche di rallentamento dell’ondata migratoria attraverso aiuti verso le terre di provenienza di questa umanità disgraziata né l’Unione europea si obbliga di coordinare urgentemente un piano straordinario di finanziamento e cooperazione allo sviluppo. Non vogliamo aiutarli a casa nostra, non vogliamo aiutarli a casa loro. L’unica decisione presa è che nemmeno le Ong, le uniche barche pronte al salvataggio, dovranno aiutarli.
L’Unione europea ha semplicemente stabilito che se vanno in mare e poi muoiono non è colpa di nessuno. Ha reso ufficiale il genocidio di Stato, il crimine collettivo contro l’umanità. Sono tanti i Salvini, che almeno mette le sue parole truci nel vocabolario dello sterminio organizzato: Macron, il fringuello riformista francese, il socialista spagnolo Sanchez, la conservatrice tedesca Merkel, il fascista ungherese Orban, i clericali polacchi.
Ciascuno provvederà al suo benessere curando che i disgraziati del mondo – se provano a fare i furbi – abbiano la sepoltura che meritano: in bocca ai pescecani. Rubo a Matteo Salvini la sua parola d’ordine: che schifo!
‘Matteo Salvini, il ministro della paura’, come il leader della Lega ha conquistato gli italiani
Matteo Salvini vende la paura al mercato della politica. E’ una merce richiestissima e lui la offre a buon mercato. La paura dell’altro, la paura dello straniero, la paura del ladro, la paura di restare senza lavoro, la paura di impoverirci. La paura del futuro.
Quando Marco Lillo, che dirige la collana di Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano, mi propose il lavoro che oggi è il volume disponibile sia in libreria che in edicola, non ebbi motivo per non accettare. Grazie all’aiuto prezioso di Bianca Terracciano, studiosa del linguaggio e della comunicazione non verbale, ho immaginato che Salvini potesse essere raccontato, e con dovizia di dettagli, anche solo attraverso i tweet, i post su Facebook, i video e le foto pubblicate su Instagram negli anni della sua lunga carriera politica. La relazione che il ministro dell’Interno ha con gli italiani si struttura infatti nell’utilizzo sistemico, a volte molte oltre la misura, dei social con i quali evita qualunque intermediazione.
E’ stato il suo successo, insieme alla capacità di entrare nelle viscere profonde degli italiani senza ambire a spurgarle dei cattivi sentimenti. Anzi. Matteo il Capitano, come i suoi fan lo chiamano, è divenuto il potabilizzatore della nostra coscienza sporca e il semplificatore di questioni complesse. Ogni cosa difficile nelle sue mani, meglio dire sulla sua bocca, diviene facile, semplice, persino banale. I Rom? Serve la ruspa (la ruspetta per i bambini nomadi). Non basta una ruspa a far sparire questo popolo, per fortuna. E tutti noi lo sappiamo. Ma vale, per Salvini e per coloro che in lui credono, il non detto: la ruspa è il segnale che si possono asfaltare le loro capanne, distruggere le loro roulotte e in qualche modo, non sappiamo come ma certo lo speriamo, liquidare così le loro vite. Sui migranti abbiamo visto come si è comportato: basta crociere! E tutti hanno applaudito. E davanti all’annosa questione del peso fiscale, delle tasse che ci inseguono e ci fanno ammattire, Salvini ha proposto la flat tax. Abbassarle ai ricchi per aiutare i poveri. Ancora applausi. Nessuno si è fermato un momento a pensare: ma davvero i soldi che i ricchi risparmieranno saranno fonte di gioia per i nullatenenti? A noi basta la promessa, e più grande è, ridondante è, incredibile è, più ci rende felice.
Salvini ci conosce bene, sa quali sono i nostri vizi e le nostre virtù. E vellica i secondi, nascondendo i primi. Ha però qualche buona ragione dalla sua parte. Che il libro, per chi vorrà leggerlo, elenca minuziosamente.
Quando bisogna riconoscere le ragioni degli altri
Le colpe degli altri, le malefatte altrui, le loro responsabilità. Non passa giorno e ora e minuto che ciascuno di noi ritenga necessario rilevare una incongruenza, una azione cattiva, un sentimento opaco di chi ci sta a fianco, o sopra di noi o persino sotto. Dell’altro, comunque. Noi giornalisti siamo poi chiamati, e fa parte del mestiere, a giudicare sempre, a volte persino ossessivamente e indicare, col dito puntato, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il cattivo e il saggio. Sarebbe una buona cosa se ci allenassimo – diciamo una volta ogni sette diti puntati? – a riconoscere le buone ragioni degli altri.
In questo caso io che sento più vicini a me i valori e le idee e le passioni di sinistra che oggi sembra scomparsa, potrei riconoscere alcune buone ragioni degli altri. Sulla certezza della pena, per esempio. Sull’effettività della sanzione.
Perché il rispetto della norma consente la vita civile. Chi la infrange va incontro a una sanzione: dalla pena pecuniaria fino alla privazione della libertà. Non ho mai capito perché si debba tacere questa verità. Perché si è costruito un processo che condona e prescrive ed evita di punire. Non ho mai compreso il senso della riabilitazione senza aver prima fatto provare il peso della sanzione. Non mi è stato mai chiaro perché ci fosse bisogno dell’indulto o dell’amnistia per i reati comuni. Le carceri sono sovraffollate, questa l’idiota spiegazione. Ed è un buon motivo? Invece di prendersi cura di chi è detenuto ospitandolo in spazi degni, si è scelto di evitare proprio la detenzione assumendo come principio di vita che i piccoli reati sono sanati dal perdono giudiziale. Si entra in carcere solo, ed eventualmente, per cose gravi (o per sviste giudiziarie). Nessuno mai vorrebbe metter piede dietro le sbarre, e magari dovremmo avere occhi vigili perché la giustizia sia amministrata con giustizia. E questo non è. Dovremmo puntare il dito contro giudici di parte, contro gli scansafatiche, contro gli annoiati persecutori in nome del popolo italiano. Dovremmo applaudire i magistrati che dimostrano passione, che rinunciano a prebende. Invece costruiamo sistematicamente un reticolo di escamotage attraverso il quale sfidiamo la forza della legge, che è anche il principio che regola la nostra vita civile, e rendiamo l’impunità una occasione perenne, quietanza liberatoria dalle nostre responsabilità.
Giustizialista che significa? E garantisti non dovremmo esserlo tutti? Ci sfidiamo nelle battaglie parolaie, asserviti all’amore della contesa, del comizio permanente. Io penso che la parte politica per cui ho votato, negli anni in cui è stata al governo, abbia sbagliato a rendere così opaca e incerta la responsabilità, la pena effettiva e appunto certa di chi commette un reato. Ha liberato gli autori dei delitti dalla loro pena, liberando in un certo senso i giudici da una responsabilità solenne – essere giusti – e il Paese dalla sua coscienza sporca.
La destra e il popolo del così e così (perché essere di sinistra costa)
Ovunque vince la destra. In Italia come in Europa, nei governi nazionali e in quelli locali, come accaduto ieri nelle città. Se vince la destra, chi ha perso? La sinistra dovremmo dire. Invece a me pare che da tempo non ci sia più né pratica né idea di cosa è la sinistra, di quali valori essa esprime, di quali e quante responsabilità pone in capo ai suoi elettori. Infatti la sinistra non esiste più da anni e coloro che hanno occupato quello spazio sono degli abusivi.
Essere di sinistra costa perché ci intima perennemente di essere virtuosi. Solidali, cioè altruisti, sinceri più che bugiardi, dignitosi invece che indegni. E il vizio? E quel diavoletto che fa capolino quando meno ce lo aspettiamo e che ci consiglia di fregare sulla fattura, rubacchiare un po’ di tempo al lavoro, far finta di non vedere lo scippo, e non denunciare quando serve? Quel diavoletto che ci consiglia che alla fine una spintarella non è un granché, e il nostro talento ben può compensare l’aiutino? Che dichiarare ogni reddito significa impoverirsi?
La verità è che la destra è più accomodante, comprende di più i nostri vizi e ci salva l’anima, ci perdona sempre. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ecco, pietre a volontà per tutti.
A noi in effetti piace la destra con la cravatta: chiede poco e dà poco, accetta quel che intendiamo per uguaglianza, giustizia, solidarietà e quando può ci frega.
Noi vorremmo un governo così e così, anche un po’ corrotto (è il potere, signora mia!) ma un po’ no; un po’ efficiente ma un po’ lassista; un po’ sincero e un po’ bugiardo.
Il troppo storpia, vero?
Chi di voi ha visto L’ora legale di Ficarra e Picone? Tutti a votare il sindaco integerrimo, tutti a esultare per l’onestà in Municipio. Ma poi, ai primi provvedimenti, un urlo di sdegno e un coro di scontento.
Noi siamo così. Anzi, se vogliamo dirla tutta, così e così.
Rajoy, il catasto e il pan di Spagna
L’impiegato del catasto da posizione lavorativa è divenuto nell’immaginario una dimensione sociologica, il luogo in cui le nostre ambizioni si riducono fino ad appiattirsi, l’ufficio dove la burocrazia esprime tutta la sua perfidia o la sua pigrizia. Detto che, viste le nuove e più amare condizioni del lavoro, in tanti farebbero oggi salti di gioia per ottenerlo, desta comunque discreto stupore che l’ex premier spagnolo Mariano Rajoy, dopo trent’anni di politica e di potere di cui gli ultimi sette all’apice del comando e del governo, abbia scelto di tornare da dove era partito: nell’ufficio del catasto di Santa Paola, Alicante, una cittadina di 35mila abitanti.
La scelta di Rajoy, che dice di essere sempre stato innamorato del suo lavoro, merita l’applauso perché tradisce il plotone degli immarcescibili, degli eterni, dei viziosi del potere immobile e definitivo. E lo tradisce non per un lavoro da jet set: non va a dirigere una fondazione, non prende una cattedra universitaria, non fa l’opinionista, non diviene capitano di industria o scrittore. Va invece a dirigere un esausto ufficio periferico del catasto.
La scelta, in questo caso onorevole assai, conferma a noi che la vita è come il pan di spagna: orizzontale. Uno strato sull’altro. Finisce una e ne inizia un’altra. Se l’avessimo sempre in mente, eviteremmo tante magre figure, tante stupide ossessioni e delusioni e privazioni.
Aiutiamoli a casa loro (seconda parte): i migranti e i nostri soldi. Chi ci guadagna e chi ci perde
Questi sono i conti della serva, tutti recuperati attraverso fonti ufficiali e/o statistiche fornite da istituti di analisi accreditati presso il governo italiano.
Aiutiamoli a casa loro? Partiamo dagli aiuti che l’Italia avrebbe dovuto garantire ai Paesi del terzo e quarto mondo, quelli di massima povertà. Il nostro impegno, preso con l’Unione Europea e con l’Onu era di destinare loro almeno lo 0,7 per cento del Pil. Dall’anno 2009 e in coincidenza con l’inizio dell’ondata migratoria l’aiuto è progressivamente sceso fino a raggiungere il -70% di quanto promesso. Ecco, già solo questo dato ci aiuta a dimostrare la distanza tra il dire e il fare.
Per rallentare l’ondata, che fa fuggire ogni giorno circa 44.500 persone, dovremmo investire essenzialmente nelle cause principali:
1) le emergenze sanitarie (profilassi generale, costruzione di ospedali, assistenza domiciliare);
2) emergenze climatiche (dissesto idrogeologico, contrasto alla siccità);
3) l’assetto democratico e statuale dei Paesi prede di guerre a carattere endemico.
L’Unione europea ha deciso di triplicare le somme stanziate per far fronte alla crisi migratoria. Si passa dai 13 miliardi di euro (per sette anni) ai 35 miliardi di euro. Di questi però 2, 3 miliardi di euro saranno destinati a misure di sicurezza compresa l’assunzione di 10mila agenti di frontiera impegnati sotto l’egida dell’agenzia europea Frontex e 1,3 miliardi per l’acquisto di macchinari di sorveglianza e controllo (sistemi di rilevamento elettronico etc). Ps. Le cifre vanno sempre divise per sette anni, qual è la durata della pianificazione economica.
Poi ci saranno soldi per la costruzione degli hotspot nell’Africa subsahariana e lungo le coste (centri di stazionamento recintati). Invece i cosiddetti “aiuti a casa loro” sono di pertinenza dei singoli Stati membri che, al pari dell’Italia, drammaticamente li riducono.
Dovremmo sapere che aiutare un Paese povero significa anche aiutare le aziende italiane impegnate all’estero, contribuire al loro fatturato. L’economista Gianfranco Viesti, illustrando il divario tra nord e sud dell’Italia, documenta come ogni 100 euro investiti al Nord solo 5 euro tornano al Sud come partecipazione indiretta delle sue imprese (appalto, sub appalto, produzione di beni e servizi necessari) all’opera da realizzare. Viceversa per ogni 100 euro di investimenti impegnati al Sud 40 euro tornano al Nord perché il suo assetto industriale e il suo know how è maggiore e dunque per realizzare la medesima opera il Sud chiederà al Nord produzioni specialistiche, interventi e somministrazione di beni e servizi più numerosi.
Adesso badate al divario di natura tecnologica, industriale, di ricerca tra l’Italia o qualunque altro Paese europeo, e quelli poveri. Realizzare in Africa una strada, una diga, un ospedale, un edificio, un piano regolatore saranno opere alle quali le imprese di casa nostra (italiane e europee) parteciperebbero in massa, come sempre è stato. Aiutarli a casa loro significa quindi anche dare ricchezza a casa nostra, vero?
Adesso però vediamo quanto i migranti direttamente aiutano la nostra casa e quanto noi li aiutiamo.
Gli immigrati iscritti nell’anagrafe tributaria (2,4 milioni nel 2016) producono 130 miliardi di euro di valore aggiunto pari all’8,9% del nostro Pil (Prodotto interno lordo). Il prodotto economico di questo capitale umano da solo raggiunge e supera il Pil di Paesi come l’Ungheria, la Slovacchia la Croazia.
I lavoratori immigrati versano 11,5 miliardi di euro all’anno di contributi previdenziali, producendo un saldo positivo per l’Inps. Come sapete l’Inps finanzia le pensioni attraverso i contributi dei lavoratori in essere. Bene. Essendo i lavoratori stranieri molto più giovani di noi (1 ogni 10 italiani ha 75 anni; 1 ogni 100 stranieri ha 75 anni), godono meno del sistema pensionistico e lo foraggiano di più. Il saldo ci dice che 620 mila pensionati italiani ricevono attualmente la pensione grazie al loro lavoro.
I lavoratori stranieri hanno dichiarato al fisco (anno 2014) 45,5 miliardi di euro versando Irpef netta per 6,8 miliardi di euro. Ma anche loro, parliamo dei residenti regolarizzati, usufruiscono del welfare, dei servizi sociali, della sanità pubblica, e di quella rete statuale a cui ha diritto ogni cittadino italiano. Persino il saldo della spesa pubblica (uscite-entrate) è attivo per 3,9 miliardi di euro (uscite per 12,6 mld entrate per 16,5 mld).
Evito di domandare quale sarebbe il costo dell’assistenza domiciliare (colf e badanti) a carico delle famiglie italiane senza la presenza degli immigrati o di domandarvi quante imprese italiane sarebbero fallite senza il lavoro sottocosto dei migranti (ve lo dico io: circa 200mila secondo le stime).
Lascio soltanto i numeri ufficiali che servono (a ciascuno di voi) a dare la misura esatta della vergognosa mistificazione che si sta realizzando, l’informazione manipolata, la percezione alterata, la radice intima e purtroppo di massa di un razzismo che affiora dalle viscere del nostro corpo e si nutre delle bugie per nascondere quel che è.
E Matteo Salvini è in condizione di rettificare queste cifre? Ma lui non scenderà mai così in basso, gli basta la parola e la propaganda, che è pietanza gustosa per gli italiani affamati d’odio.
Aiutiamoli a casa loro (prima parte): il “grabbato” e il “grabbatore”
L’Unione europea ha appena deciso di triplicare i fondi per la gestione dei migranti: la somma messa a bilancio passerà dagli attuali 13 miliardi di euro (anni 2014-2021) ai futuri 35 miliardi di euro (anni 2021-2027). Prima di compiere l’analisi dei costi preventivati, dove i soldi vanno, per fare cosa, dobbiamo sapere cosa noi prendiamo dall’Africa, e cosa restituiamo all’Africa. Se noi aiutiamo loro oppure se loro, magari, danno una mano a noi.
Conviene ripetere e magari ripubblicare. Quindi partire dalle basi, dai luoghi in cui i migranti partono. Renzo Rosso, l’uomo che dai jeans ha ricavato un mondo che ora vale milioni di euro, ha domandato: “Come mai spendiamo 34 euro al giorno per ospitare un migrante se con sei dollari al dì potremmo renderlo felice e sazio a casa sua?”.
Già, come mai? E perché non li aiutiamo a casa loro?
Casa loro? Andiamoci piano con le parole. Perchè la loro casa è in vendita e sta divenendo la nostra. Per dire: il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita.
E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi?
L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è. Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi. Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra.
I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle. E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business. In Uganda 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto… Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza…
Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo.
Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure!
L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che – lavorata – permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano. Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perchè hanno un lavoro.
Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno.
Mazzette e corruzione, sono tutti uguali?
Pochi tra voi acquistano il giornale per capire, approfondire, documentarsi. Sembra una fatica inutile, abituati come siamo a guardare ma non a leggere, una spesa inutile dal momento che c’è il tuttogratis di internet, o perfino dannosa (i giornalisti pennivendoli eccetera). Molti tra voi si accontentano di leggere, sminuzzate, ridotte per sintesi o per spot sguaiati, le ultime novità politiche sulle quali apporre il timbro di un giudizio e – se manca – del pregiudizio. Che in questi giorni è: “Sono tutti uguali”.
Perché invece non è così? Chi scrive ha subìto lo sconforto dei molti che hanno visto, negli ultimi arresti per la costruzione dello stadio di Roma, l’immarcescibile abilità di accorciare con una mazzetta la lunga fila delle regole. Allo sconforto è seguita l’indignazione di chi aveva riposto nel nuovo corso una speranza e l’esultanza di chi quel nuovo corso aveva disistimato dall’inizio, prefigurando invece nuove disgrazie.
Gli esultanti e gli sconfortati, guerreggiando, hanno perso di vista tre rilevanti novità.
La prima: un politico del Pd, l’assessore comunale all’urbanistica di Milano, ha rifiutato ogni offerta dagli emissari del costruttore Parnasi. Pierfrancesco Maran, autore del rifiuto, è stato addirittura additato come un eroe e giustamente si è guadagnato una menzione speciale. Perché eroe? Perché nessuno di noi crede possibile un simile gesto ritenuto oramai contro il principio di realtà e contro la natura stessa delle cose.
Questo pregiudizio ci ha condotti a un’altra alterazione della realtà: nessuno si è mostrato sorpreso che a Roma un esponente del Pd e uno di Forza Italia siano rimasti coinvolti nel traffico di influenze, chiamiamolo così. Come se fosse naturale, persino per gli elettori del Pd e di Forza Italia, che i loro rappresentanti si innamorino di ogni sorriso e portafogli.
Terza novità: abbiamo assunto come definitiva la collocazione nel regime dei corrotti dei Cinquestelle. Una deduzione che ha reso felice chi attendeva la validazione del suo teorema, e disturbato chi invece, grazie al teorema opposto, riteneva che i cattivi, i corrotti fossero solo di là.
Queste considerazioni ci hanno fatto perdere di vista tre importanti novità.
La prima: i Cinquestelle non possono permettersi in alcun modo di trovarsi invischiati in situazioni di malaffare, pena la loro immediata esclusione dal gioco politico. Simul stabunt, simul cadent. La loro ascesa è dovuta a una dichiarata diversità, la loro discesa sarà l’effetto immediato dell’omologazione. Quindi hanno un interesse particolare, direi fondativo, a reagire con nettezza. E saranno tanto più netti quanto più percepiranno, come in questo caso, un clima di indignazione o di disillusione che li chiama alle proprie responsabilità.
L’errore opposto, che è di coloro che avversano i Cinquestelle, è di ritenere eroico e solitario il comportamento del loro assessore milanese e dirigere la propria indignazione non verso i corrotti del partito che difendono ma verso i (falsi?) onesti del partito che avversano.
“Così fan tutti” è perciò un modo per celebrare la sconfitta sistematica del bene sul male, la morte civile di ogni passione, di qualunque idea, di qualsiasi progetto.
A me sembra che non sia così, almeno non sia ancora così.
Indignarsi, continuare a farlo anche nei confronti del proprio partito o movimento se i buoni propositi non sono seguiti dai comportamenti necessari, sarà sempre un sentimento positivo, necessario, concludente.
La politica ubbidisce alle leggi della fisica. Più severa e certa e documentata è la vigilanza e la pressione dell’opinione pubblica meno saranno coloro che riterranno l’impunità come indiscutibile.
Più severi sarete nelle urne, dove dare fiducia o toglierla è espressione del principio democratico di scegliere il migliore per farsi rappresentare, più trasparenti e degni saranno i nomi che i partiti candideranno.
Malgrado tutto, tutto passa per le vostre mani, per le nostre mani.
Unte le loro, unte le nostre. Pulite le loro, linde le nostre.
SALVINI DIA INDIETRO I 250 MILA EURO
Roma ladrona ricompare e, curiosamente, rovina sul vestito blu ministeriale di Matteo Salvini. Ora si ritrova tra le mani l’assegno di 250 mila euro che Luca Parnasi, da buon investitore, ha destinato alla Lega. “Lo conosco come una persona perbene”, ha detto ieri il ministro. E non dubitiamo affatto. Come non dubitiamo che Parnasi abbia investito bene, “spendendo un po’ per le elezioni”, come pure ha commentato con i suoi quando ha deciso di stornare alla politica un po’ di quattrini, che del resto per l’azienda è tradizione antica e si immagina parecchio remunerativa.
È sempre possibile, perché le vie del Signore sono infinite (e il nostro Matteo ha innalzato il Vangelo a suo compagno di viaggio), che il costruttore romano sia apparso ai leghisti come un improvviso e assai fervente sostenitore di Alberto da Giussano ma purtroppo per Salvini la professione di fede fa un po’ ridere. Fa invece riflettere che il costruttore romano abbia messo la sua fiche sulla Lega. E doppiamente pensare che quella fiche Salvini l’abbia accettata.
Tutto torna e la storia ancora si ripete. Era il 7 dicembre 1993 quando un altro tesoriere, si chiamava Alessandro Patelli, raccolse una busta contenente 200 milioni di lire da Carlo Sama, presidente Montedison. E quei soldi, tutti in nero, Umberto Bossi si affrettò a restituirli ma non bastò a evitargli una condanna a otto mesi per violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti.
Oggi Salvini deve ripetere il gesto del suo antico e perduto leader. Certo, i soldi di Parnasi sono iscritti a bilancio della sua società (Pentapigna srl) e l’erogazione è legittima dal punto di vista giuridico. Politicamente invece suona come una resa al vizio antico di predicare bene eccetera eccetera. Salvini, già che si trova in tema, approfitti e indichi i nomi degli altri donatori che hanno scelto di inviare soldi all’associazione Più Voci, la onlus destinataria dei bonifici. E già che c’è spieghi se la Lega ha ancora in cassa le azioni di General Electric, della spagnola Gas Natural, di Mediobanca, di Enel, Telecom, Intesa San Paolo. Se abbia venduto o ancora possiede il corporate bond da trecentomila euro di Ancelor Mittal, la multinazionale che ha appena acquistato l’Ilva.
Matteo Salvini con le parole ha costruito un mondo. Ne usi qualcuna per spiegare se ha investito (lui o i suoi predecessori) o perché non abbia disinvestito. E ne usi qualche altra per illustrare la distanza che separa l’apparenza, il leader che attacca le multinazionali, il lombardo che mangia italiano, beve italiano compra sempre italiano, e poi la realtà.
Un movimento che acquista azioni del capitale ostile e aggressivo, che raccoglie donazioni da costruttori parecchio affamati, che arruola gente dal passato opaco.
Spieghi con un tweet. O forse con due. O anche con tre. Non prima di aver compiuto l’unica scelta possibile: andare in banca e bonificare sul conto della Pentapigna srl, società detenuta al 100% da Luca Parnasi, i 250 mila euro con questo messaggio: grazie, ma sono troppi soldi e la gente mormora…
Da: Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2018