PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Matera
C’è la Lucania e c’è Matera. L’unica cosa che non esiste è la Basilicata.
Per giungere nei Sassi da ovest bisogna superare i piedi di Potenza. Che non è ancora una città e non più un paese. I palazzi della periferia piazzati in campagna stringono alla gola la Basentana, la via traversa che segna in due la Lucania edificata grazie a quell’uomo di Stato che fu Emilio Colombo, il dandy padre costituente, british nei modi, nel doppiopetto blu a righe, una sorta di principe Carlo del Mezzogiorno. Occhiali metallici, parola di velluto dalla foggia curiale, e democratico despota della sua terra alla quale, tra le altre cose, fece avere appunto questa strada a scorrimento veloce. Più modesta di una autostrada, più larga e comoda di una camionabile.
POTENZA SI PRESENTA impettita, dai fianchi larghi perché – essendo sede del potere regionale, e la finanza pubblica è l’unico soldo che corre da queste parti – ha mangiato a sazietà ogni prato e spiazzo, iniettando cemento armato nella corsa sciagurata alla modernità. Vedendo alla tv la periferia romana, il grande Serpentone della Capitale che tumula in chilometri lineari le vite di molte migliaia di sciagurati, si è fatta venire voglia di erigere una sua mini muraglia dove sono reclusi i lucani in debito di conto corrente. Una fucilata di case popolari che chiudono l’orizzonte, riducono la veduta e immiseriscono gli altri palazzotti, discretamente brutti, che si ergono ai lati.
Superata la gola potentina e quella magnifica delle cosiddette Dolomiti lucane, si giunge a Matera. Le due città un po’ si odiano un po’ si invidiano e un po’ diffidano e la questione oggi non si fa banale perché la prima, cioè Potenza, che è pure capoluogo di Regione e giostra i soldi di Roma e quelli del petrolio, è costretta a fare i conti con la forza dei Sassi. Non c’è gara! Sono le pietre a vincere sul cemento armato, le pietre a fare di Matera la regina del Mezzogiorno, il presidio culturale più avanzato, spilla preziosa della geografia interna. Sono state quelle pietre, fino a quarant’anni fa recinto miserabile dei pastori, luogo insalubre, casa per uomini e capre, ad attribuire a Matera la nomination di Capitale europea della Cultura per l’anno 2019.
CHE SIGNIFICA un bel bottino: 45 milioni di euro per la Fondazione che gestirà l’anno culturale e altri 250 milioni di euro per sostenere le infrastrutture da attrezzare per chi verrà a visitarla. C’è città più ricca oggi in Italia? E c’è una città più lontana dall’Italia di Matera? Non ha la ferrovia, che dal Dopoguerra è in gestazione, non ha un aeroporto, non ha strade veloci. La si raggiunge prendendola alle spalle, cioè atterrando a Bari, oppure sfidandola di fronte, e quindi passando per Potenza. Essendo tanti i soldi da spendere però, e qui il vizio ha morsicato la virtù, la faccenda gioiosa si è complicata cosicché a oggi nulla è stato edificato, aggiornato, trasformato, riabilitato, recuperato. Niente di niente. L’unica novità è che in Comune, dove regna una coalizione arcobaleno di centrodestra guidata da un brav’uomo, colto e di età avanzata, sprovveduto il giusto. Si chiama Raffaello De Ruggieri, e si è deciso di sperimentare il governissimo, un patto del Nazareno in salsa locale. Il sindaco attuale tenterà di spendere e appaltare (finora zero carbonella) i milioni disponibili per il territorio (in teoria 114 milioni) e a quello bocciato dalle elezioni (Salvatore Adduce del Pd) è stata affidata la curatela della Fondazione, quindi un’altra borsa di 45 milioni, da spendere per la Cultura nei prossimi ventiquattro mesi.
Il riconoscimento di capitale europea – Matera 2019, Open Future –forse risarcisce l’attesa millenaria della città dei Sassi. E tant’è: “Si chiude un quinquennio che comincia il 17 ottobre 2014 – spiega Valentino Blasone, economista che gira il mondo per vendere i divani Natuzzi – ma immaginare il futuro dei figli, qui, è proprio difficile quando già con 30.000 visitatori, o abitanti culturali come li chiama il sindaco, va in tilt il depuratore della città”.
A CAPOVOLGERLA, MATERA, dalla periferia garbata – strade ampie, caseggiati di composto decoro – si ricongiunge con la sua stessa identità, quella del laboratorio per eccellenza del Meridione, e il rione Lanera, progettato da Marcello Fabbri e Mario Coppa, inaugurato il 22 dicembre 1957, è pur sempre il quartiere dove ebbero a mobilitarsi Adriano Olivetti, Ernesto De Martino e Manlio Rossi-Doria, affinché i contadini – per dirla con Rocco Scotellaro – “potessero entrare nella storia” e oggi è il punto chiave del confronto politico.
Tant’è, Matera. Un ex ragazzo di oltre ottant’anni cammina a passo svelto sul marciapiede di via Lucana. Pasquale Doria, direttore della raffinatissima rivista Mathera, lo saluta, lo presenta: “Si chiama Lucio Pesce. Olivetti lo incontrò proprio qui, su questa stessa strada, era solo un ragazzino lucano, e se lo portò a Ivrea, per farne lo storico capo del personale della Olivetti”.
Tant’è, Matera. La tecnica di telemetria laser del Centro di Geodesia Spaziale inaugurato nel 1983 registra l’astrometria, la radioastronomia e la navigazione satellitare lassù, nel cielo stellato, ma due ben precise inquadrature fissano il film di ciò che fu, quaggiù. La storia ha due fotogrammi. Questo è il primo: un giovane Emilio Colombo mostra ad Alcide De Gasperi, in visita in Basilicata, le condizioni di vita nei Sassi con i bimbi dalle palpebre come pustole, zuppe di tracoma e il presidente del Consiglio – è uno che arriva dal Trentino, tutto di aria salubre – rompe in pianto. E questo è il secondo: Palmiro Togliatti, il capo del Partito comunista, inghiotte le pagine di Carlo Levi – “sembra di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste” – e reclama la cancellazione della “vergogna d’Italia” a colpi di piccone. E anche di dinamite, se necessaria. Il passato passò e oggi il Vangelo secondo Matera, a prescindere anche dal patrocinio Unesco – o da Pier Paolo Pasolini, o da Mel Gibson che vi ambientarono il loro Cristo – è Sassiwood.
Francis Ford Coppola – che è lucano, autore dello spot che rilancia la Lucania nel mondo –prevale sull’immaginario imposto dal Cristo di Levi: “Vedi la terra così come deve essere”, dice il regista de Il Padrino mentre la macchina da presa indugia sui vigneti, gli alloggi rupestri dei falchetti e gli sbreghi di cime su cui planano – finché lo sbuffo di idrogeno solforato di Viggiano non li atterri – i fenicotteri.
E l’intera Lucania, con Craco, la città fantasma perfetta per le produzioni cinematografiche, con l’incantevole Venosa, o con le sue Dolomiti – a Pietrapertosa dove ad Arabat, nel quartiere saraceno, ancora sgorga il canto del muezzin, e a Castelmezzano sulle cui rocce proiettano i film – partecipa dell’industria terrona chiamata “bellezza”. “La Lucania non è Firenze – dice Franco Arminio, il paesologo che dirige il Festival di Aliano, La luna e i Calanchi –. Non è una terra che tutti vanno a conoscerla”. Arminio sperimenta la freccia del tempo che porta con sé – a favore di vento – il cuore arcaico di questi luoghi: “Quando qua uno muore sa poi di averlo un funerale, e in vita sa dove andare a comprare un bicchiere di vino”.
MA IL SANGUE può anche diventare trama, sottile, di un racconto che va a ripetersi, e lo si legge in un pomeriggio di struscio di via Pretoria a Potenza osservando le impalcature che oggi vanno a coprire la chiesa della Santissima Trinità, ormai chiusa per sempre.
È il 17 marzo 2010 quando il corpo di Elisa Claps, 16 anni, è rinvenuto nel sottotetto di questa chiesa. Profanata dall’orribile delitto, una petizione cittadina ne scongiura la riapertura per tenersi piuttosto il magone. È il posto dove il passato cerca sepoltura. E il futuro? La giunta regionale, a suon di quattrini, si è aggiudicata il Capodanno di Rai1 per quattro anni di fila. Questo del brindisi in tv è l’evento più triste che esista nel palinsesto televisivo, ma fa una bella scena, e comunque è meglio apparire che essere. Amaro lucano.
da: Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2018