“Serafino, sei il nostro angelo”. La gigantografia del boss Serafino Cordaro, assassinato nel 2013, capo del clan monopolista dello spaccio di droga a Tor Bella Monaca campeggia su un muro di un palazzo del quartiere, un caseggiato per giunta di proprietà comunale.
Da cinque anni è lì. Tutti lo sanno, nessuno lo toglie. Ventiquattro ore invece ha campato il murale dello street artist Tvboy che aveva ritratto Di Maio e Salvini in un bacio appassionato. Solerti sbianchettatori comunali furono inviati a ripulire lo scandaloso e imbarazzante bacio disegnato appena dietro Montecitorio.
Si potrebbe dire, e magari è effettivamente così, che quando il potere costituito è preso di mira e sbeffeggiato, si difende e risponde in un battibaleno.
Io invece credo che la disparità di trattamento abbia una spiegazione ancora più profonda e grave: il quadro che inneggia al capo degli spacciatori è dentro una comunità di invisibili, è ai margini della Capitale, nelle larghe periferie che il potere proprio non vede, di cui non s’accorge.
Desta scandalo o polemica, si dibatte e si ragiona solo su ciò che sappiamo, che conosciamo. Che appare, quindi che è. E le notizie che selezioniamo, i fatti di cui ci occupiamo sempre più hanno poco a che fare con gli interessi dei più, le gioie o le pene di chi sta lontano dall’obiettivo.
L’Italia non è divisa in due dalla politica ma dalla vista di chi la abita. La società che appare, rimpicciolita quanto si voglia, e quella invisibile, sempre più larga, ma che fa fatica a esistere.
Il boss ha la sua gigantografia, ma sta nel suo territorio, e chi vive là e magari non spaccia, non ruba, sceglie la legalità, non ha altra possibilità che delegare la sua vita, la tutela dei propri diritti e anche delle sue speranze a chi sta di qua, che nemmeno si accorge di lui, l’invisibile.