“Insopportabile”. La giovane barista salernitana riduce la questione politica a puro sentimento: Salerno non ne poteva più di De Luca. Troppo Vicienz, che fino a ieri era “patr a me” (“Vincenzo è il mio papà”, dicevano i fedelissimi) non si è accorto di aver esondato. La sua famiglia ha allagato la città e la regione e Piero, il giovane avvocato esperto di diritto lussemburghese, il prediletto malgrado un processo per bancarotta, rotola nel fiume di un rancore improvviso e definitivo. Terzo su 4 contendenti dell’uninominale, una percentuale questa sì insopportabile – 23,13 – per un cognome che teneva incollato sul suo petto fino all’80% dei voti. È la svolta di Salerno. La seconda dopo quella del secolo scorso. È sempre Salerno che annuncia la rivolta del Sud ribelle al sistema. Oggi e così improvvisamente rinunzia al padrinaggio del Pd e rifiuta anzi brucia la tessera forzista con la quale in ben tre tornate politiche ha battuto cassa.
LA CITTÀ DEL FEUDO, la roccaforte con la quale il papà ha controllato e governato municipio e aziende pubbliche, mix perfetto per balzare in Regione e da qui pompare soldi (un miliardo di euro in arrivo!) e irrobustire i canali irrigui del consenso, oggi è zuppa di pioggia. Ora Salerno, e con lei il sud volge lo sguardo ai 5stelle a cui tributa una messe spropositata di voti, e lo fa più per rancore con quegli altri, tutti gli altri, che per convinzione. Il candidato di Di Maio, Nicola Provenza, un borghese di solide tradizioni democristiane, strapazza Piero, il predestinato, e lo doppia nel consenso. La fiumana spalanca la città al nemico più odiato, Giggino come lo chiama per sbeffeggiarlo De Luca Papà. Ed è questa forse la vergogna più insopportabile. Oggi Salerno è muta e Piero ha chiuso il portone della sede, e deve sperare nel paracadute del proporzionale (primo in lista a Caserta) per un ripescaggio in extremis. Pare un’azione di bonifica territoriale che qui ha il suo centro di gravità permanente, l’espressione più potente di cosa sia un potere efficiente ma minuziosamente clientelare, familistico.
Salerno si piega e quasi travolge anche Marco Minniti, qui capolista del listino, che deve fare i conti con i resti per garantirsi la permanenza in Parlamento. E il torrente si fa fiume perché non c’è area, territorio o comune dove il partito della sinistra di governo regga. L’unico luogo in cui i cinquestelle si fermano, l’area del Cilento, è il posto in cui il centrodestra issa la sua solitaria bandierina contro il candidato Pd, l’ex sindaco di Agropoli Franco Alfieri, bollinato come “frittura di pesce”, indicato dal conducator De Luca come il più esperto nella pratica dello scambio corpo a corpo. Vota e mangi, o vota e lavora. L’offerta dal fondale culinario nulla ha potuto contro un movimento di ribellione silenzioso ma così vasto che ha abbattuto anche il richiamo al luccichio delle royalties. Pochi chilometri a est del Cilento c’è la Lucania, detenuta da un’altra famiglia, quella dei Pittella, l’uno presidente dei socialisti europei e l’altro governatore. Terra di estrazione petrolifera, di distribuzione di benefit, i diritti che le compagnie lasciano al territorio. Il Pittella più noto ha conosciuto il ko tecnico, sparito dai radar nella sua roccaforte. Ha perso contro un candidato reietto, il presidente del Potenza Calcio, imprenditore accusato di reati finanziari, a cui Di Maio ha tolto il patronage. Pittella è stato sconfitto da un impresentabile perché il Pd, nel Mezzogiorno è divenuto impresentabile per definizione. La Campania si tinge di arancione, come la Puglia, la Basilicata e la Calabria. Niente da fare, questa volta lo tsunami è stato improvviso e potente e ha divelto, insieme al potere del Pd, la vecchia burocrazia del centrodestra che qui aveva feudi e voti. In Calabria, Gasparri e Alemanno, quando militavano in Alleanza nazionale, avevano una cassaforte di consensi: oggi, zero. E 28 su 28 collegi è dunque il risultato siciliano, l’isola del sorriso berlusconiano, la terra della religione arcoriana, che ora passa al M5S.
Il Mezzogiorno si sveglia e porta, con la Sardegna, il senso della sua protesta disperata. Certo, il reddito di cittadinanza, il bonus che Di Maio ha promesso, è leccornia per l’esercito di disoccupati. Ma da solo i soldi non spiegano tutto. De Luca, per tornare a Salerno, aveva appena staccato un assegno da un miliardo, eppure.
da: Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2018