PESCARA – Miami sull’Adriatico. Godere con D’Annunzio su un mare di cemento

PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE inviati a Pescara

La vorace Pescara si chiama Pescara e non Castellammare Adriatico – il comune più grosso con cui nel 1926 fa un’unica cittadina – per Gabriele d’Annunzio, il poeta. Il nuovo centro doveva chiamarsi Aterno ma per la santa pace del Capo del Governo, incalzato dal Vate, succede che il piccolo s’ingoia il grande.

A sorvolarla, come a bordo dell’idrovolante Alcyone, ecco il brulicare di un unico sfogo: Pescara è un magnete a forma di triangolo – visto dall’alto – con una rientranza che fa poi da aggancio e trascina a sé Montesilvano, Silvi Marina, Città Sant’Angelo, Spoltore, San Giovanni Teatino, Francavilla e pure Chieti. Senza dimenticare i 60 mila sfollati del terremoto arrivati dall’entroterra. Numeri che danno la somma al totale.

SONO OTTO COMUNI di ben tre province (Chieti, Pescara e Teramo), chiamati ad adunarsi ai margini di piazza Salotto, lo slargo elegante dove Ettore Spalletti, scultore tra i più acclamati, si gode la visione della festa di laurea di un giovane zingaro giunto al rinfresco in groppa al suo cavallo bardato di tutto punto.

Pescara è ’nu film. Ricorda Maurizio Ballone, avvocato. Il destriero è lo stesso visto, qualche giorno prima, sul terrazzo di una casa nel quartiere Rancitelli, il nucleo della città vecchia di solo novant’anni, dove la più numerosa comunità stanziale degli zingari residente da sempre alimenta la pellicola di un racconto straniante.

’Nu film che comincia negli anni 80 – con Carol Alt all’ombra delle “palme”, i grandi ombrelloni degli stabilimenti, e Ayrton Senna, il più grande dei piloti, alla guida della macchinetta elettrica – e che continua oggi se solo si sapesse di chi è la strepitosa Mercedes Amg, dal colore senza colore, cromata e basta, parcheggiata dal bar Berardo di corso Umberto. È proprio di fronte alla Fontana della Nave, la scultura di Pietro Cascella e anche quell’auto – chissà di chi è – è un monumento di volontà e rappresentazione nella città della terra e del mare. E dei grandi soldi.

’Nu film, Pescara. Dal piccolo Abruzzo alla grande globalizzazione. Questo è l’andazzo nella città che cresce per addizioni, l’unica – e lo scriveva Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia – “città americana in Italia”, una specie di piccola Los Angeles che assorbe ogni cosa per farne l’esatto contrario. Come Luciano D’Alfonso – esponente Pd, governatore della Regione – che di Pescara, anzi la “Grande Pescara” fa il suo trono e di tutto il resto intorno ne fa feudo. Una signoria quella di D’Alfonso – un Remo Gaspari venuto male – dove impera e divide con i suoi fedelissimi.

UNA SPECIE DI MIAMI è Pescara, vitale, ipercinetica, corrotta dalla fame che l’affligge.

Costruire, ricostruire, abbattere e costruire di nuovo. Cemento über alles. Sta per inghiottirsi l’intera regione, tutta di montagne e natura, e farne mare, solo mare di cemento: l’Adriatico lordato dai reflui urbani, interdetto ai tuffi e alle bracciate perché sporco oltre il lecito, qui celebra l’egemonia di un ’identità né meridionale, e neppure settentrionale.

“La prima città del Nord che s’incontra salendo, la prima del Sud cui s’arriva scendendo”, dice Lorenzo Sospiri, l’esponente di Forza Italia – oggi all’opposizione – cui, per celia, tutti affidano l’onomastica di uno dei due avveniristici ponti (il Flaiano) ribattezzandolo “Ponte dei Sospiri”, giusto a suggerire la parodia veneziana che con l’altro grande ponte – del Mare – inaugurato da D’Alfonso, accompagnato da Dudù, l’azzimato cerimoniere, magnifica la sfacciata prontezza del mare magno che tutto si magna. Il mare, allora. Ironico quanto un presocratico, Cristiano Paggetti, titolare del Caffè delle Merci e filosofo, che i giornali li tiene in frigo per mantenerne fresche le notizie, racconta il mare che fu: “Da bambino raccoglievo le stelle marine e accarezzavo i cavallucci a spasso tra le onde; alla foce del fiume Pescara vi trovavo i gamberetti d’acqua dolce, è il fiume che oggi fa merda del tutto”.

Alle solite: il piccolo fiume e il mare grande – “con il reparto di ginecologia”, spiega ancora l’oste, “che registra le impennate di ricovero in estate, quando le ragazze prendono il bagno”– ma la tragedia del ristagno degli inquinanti portati dal fiume forse troverà riparo. Altre opere sono in agguato, e milioni di euro ancora da spendere.

La spiaggia, fa notare Guido Alferj – squillante firma del giornalismo italiano, già inviato del Messaggero – è dentro casa: “Esci dal supermercato, esci dall’ufficio e ce l’hai lì”. La spiaggia basta e avanza, il mare lo guardi solo.

Ed è il segreto che Pescara si tiene in tasca, il mare. Ma come a Ostia, anche qui il mare non si vede. Gli stabilimenti fanno muro, il manto di sabbia e delle onde s’intuisce dai piani rialzati delle case e nella proterva e dolce presenza rosata del cielo.

C’è la delicatezza dell’assoluto a Pescara e solo Spalletti, che qui ha casa, sa tenerselo tra le dita e lo sa evocare.

Angelo soave qual è, si avvia verso il suo tavolo, alla Paranza, sul lungomare. Gli viene incontro il sindaco Marco Alessandrini, sempre bisognoso di consigli – “Cosa posso fare, Maestro, per restituire alla bellezza il mare?” – e la risposta, dolcissima, è sempre una: “Prenda una ruspa che parta dal Porto e strappi la crosta di cemento che nasconde l’Appennino all’azzurro del mare”.

Gli amministratori non si sono ancora decisi sulla reale vocazione della città, se balneare o portuale ma Alessandrini, consapevole di avere addosso D’Alfonso, incassa il consiglio di Spalletti e taglia corto, anche perché al porto turistico lo skyline serba un pugno in un occhio a chi guarda: 200 mila metri quadri di fanghi puzzolenti a far da montagnetta, un ingombro che dal 2014 – dopo un impegno di spesa di 13 milioni di euro – attende ancora di essere trasferito in Belgio e lì smaltito, come da accordi presi con la ditta incaricata di dragare la rada.

Tra Bologna e Bari, dunque – tra le città della moltiplicata operosità centro-adriatica – sta Pescara: “Potrebbe essere demolita da un giorno all’altro senza pena alcuna ed essere ricostruita, una piccola Abu Dhabi senza storia e identità”, dice ancora Spalletti mentre intorno a sé, nel suo studio, le sue opere costringono i visitatori alla soggezione, come innanzi al Santissimo nella bella chiesa dei Sette Dolori.

Città culla degli artisti, Pescara “Natura morta con bicchiere in mano”, spiega con felice immagine Marco Manzo, giovane editore di Abruzzo Independent e però memore di identità clamorose: “Fu officina degli schifanisti, e anche dell’avanguardia del fumetto con Andrea Pazienza e Tanino Liberatore”.

L’arte, comunque, è il blasone della città ricostruita in forma di piccola metropoli. Rasa al suolo dagli americani il 31 agosto 1943 (con 5.000 morti in quattro giorni), Pescara risorge dotandosi di una rinascita ordinata con una marea di energie che va a specchiarsi di fronte al mare.

 

L’arte, appunto.

Ricorda Lilli Mandara, penna acuminata e dolente: con Spalletti, al seguito di Germano Celant, arriva Jannis Kounellis, quindi Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Joseph Beuys. Ed è anche meta della voce dell’oblio, con Carmelo Bene che da Otranto risale la dorsale adriatica apposta per reclutare a Pescara una ragazza – “un’infermiera per amore dell’arte” – nella pur sempre città de La figlia di Iorio che ancora oggi non ha un teatro (tant’è che il pescarese D’Annunzio, trionfante autore in tutto il mondo, nel 1904 consegna il manoscritto del copione al Marrucino, il teatro di Chieti, a futuro monito più che a futura memoria).

Non è teatro, Pescara. Magari è rassegna letteraria, come l’assai glamour FLA, ovvero Festival Libri e Altre cose curato da Luca Sofri – organizzatore de Le merende in spiaggia – o come il Festival Jazz, un appuntamento internazionale di altissimo livello.

È ’nu film. “Tutto è violento e tutto è pacato” annota il Vate a proposito di Iorio e il Far West sta sempre sottotraccia in questo outlet del capitale umano.

La violenza, per esempio, è un film. Come quando nel maggio 2012 si scatena una guerra tra gli ultras del Pescara e la comunità degli zingari. Uno di questi regola il conto con una pistolettata. L’ultrà muore nel giro di niente, si scatena il ferro e fuoco e la Questura allora impone un aut aut: o il colpevole, o il peggio. E così, all’autogrill di Francavilla al Mare, gli zingari consegnano alla polizia il colpevole. Come ’nu film.

Da: Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2018

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