PIETRANGELO BUTTAFUOCO E ANTONELLO CAPORALE
Mille e ventisei aziende. Tutto l’oro che luccica è allineato all’imbocco delle quattro vallate che aprono la strada per Arezzo. Lingotti, lingotti e lingotti. Oro puro, smagliato, svuotato, riempito. Fatto a ciondolo o a corno. Oro sonante e pesante per l’emiro insaziabile, oro da dote alla figlia del capo tribù africano, del guerrigliero salito di grado, del mercante chiamato al dominio.
Oro per i dittatori africani, per i commercianti messicani, per le figlie da maritare, per i traffici da concordare. Oro di tutti i carati, per qualunque occasione. Un miliardo e 800 milioni è il fatturato complessivo del primo distretto orafo d’Europa. “Sapesse cosa ci chiedono: catenone da esibire sui petti villosi, e noi abbiamo imparato a realizzarle. Anelli a forma di farfallone che coprono l’intero dito e nascondono sotto la tessitura metà della mano. E noi, pronti, con le nostre macchine. Anche questa è innovazione”, dice Giordana Giordini, tra le più abili a riempire l’oro di ogni vizio, ogni forma, ogni pur scellerata dimensione.
Titolare dell’omonimo marchio e presidente degli orafi toscani di Confindustria, conosce gli affari e anche il loro cattivo sapore. “L’oro si vende a chi è ricco, e i soldi non hanno odore. Affascina particolarmente quella fetta di mondo meno sviluppata. L’oro si vende ai libici, fai buoni affari anche se vai in Messico, prima si stazionava a Los Angeles per la ricca società del business cinematografico, ora non più. L’oro va fortissimo tra gli arabi. Devi saperci fare, stare attento a come ti comporti. Una donna poi assume un rischio in più: deve piegare la diffidenza, stare al livello delle parole di uomini che non conoscono la parità di genere. Non devi farti mettere mai sotto”.
LINGOTTI di ogni misura e anelli, meglio se esagerati. “Facciamo anche catenone, molto vistose e kitsch, il mercato latino-americano e quello africano le cerca con voluttà e si sazia esibendole al collo. Per fortuna in Libia la guerra sta finendo e gli acquisti infatti riprendono vigore. L’unico problema che abbiamo è che continuano a voler pagare in contanti. Si presentano con le valigie piene e buttano i dollari sul tavolo. Ti tocca chiamare il direttore della banca, spiegargli, fargli capire, tenere testa alle leggi italiane sulla tracciabilità dei soldi. Le sembra un problema da poco?”.
Oro dunque per ogni abbuffo, per mani ingorde e stomaci pieni di pelo. Un miliardo e 800 milioni di euro vale il distretto più importante d’Europa, che negli anni della crisi ha ridotto la sua prestanza ma non il carisma. Una volta la nuvola teneva Arezzo sotto assedio da carati e briciole di pietre preziose si aspiravano persino all’imbrunire, tra gli scarti della lavorazione, rassettando l’azienda. Se ne faceva un mucchietto e si metteva da parte. Mucchio a mucchio diventava oro nero, e la polvere – trasportata in banca – si trasformava in denaro contante e completamente esentasse. Che anni quegli anni ma – se permettete – anche questi. Tanto che la maggiore preoccupazione di Maria Elena Boschi, in qualità di “deputato del territorio”, è stata che tutto quell’oro, che poi è effettivamente energia vitale per l’industria, a causa della disfatta di Etruria, non si perdesse nel metallo di uguale fattura, ma di minore prestigio, di Vicenza, sede della banca, che nei sogni o negli incubi, sembrava dovesse fare un sol boccone della cassaforte aretina.
Ma Arezzo è ricca di altri viaggiatori. Uno in particolare. Il Tito Barbini. Chi ha visto il Barbini? Sai niente di lui? Successe qualche anno fa, al tempo delle elezioni comunali. Il Pd gli rifiutò la candidatura a sindaco, dopo che aveva vinto le primarie, e lui, dell’alta borghesia comunista toscana, sparì nella nebbia. Era stato già sindaco a Cortona, poi presidente della Provincia di Arezzo, quindi, nel regolare cursus honorum del partito, aveva occupato i posti chiave di assessore regionale all’agricoltura e urbanistica.
Barbini si ripresentò in città sei mesi dopo e solo allora si seppe cosa gli era frullato in mente. Lasciati moglie e figli a casa, zaino in spalla e via in Patagonia. Da lì, a piedi o in corriera, fino in Alaska. Un viaggio durato cento giorni, raccontato poi in un libro (“Le nuvole non chiedono permesso”) e un amore che non è finito più. Viaggiatore solitario e scrittore. “È la mia nuova vita della quale non so fare a meno. Tagliare con la politica attiva è stata una scelta che mi ha riempito gli occhi delle meraviglie del mondo”. Ancora oggi parte e ritorna. Poi riparte. Ricorda quella che fu l’altra vita: “Sono stato amico personale di François Mitterrand. Enrico Berlinguer mi chiese di incontrarlo. Mi misi ad organizzare il vertice, però Craxi fece prima di noi e il vertice non c’è stato mai più”.
Da: Il Fatto quotidiano, 28 dicembre 2017