Mattia Palazzi deve dimettersi perché ritiene che a Mantova, dove è sindaco, nessuno possa permettersi di fare qualcosa senza prima chiedere il suo consenso. È la privatizzazione dell’ufficio pubblico a rendere insostenibile la sua permanenza a capo dell’amministrazione comunale non un giudizio universale sulla sua moralità. Il sesso riduce a gossip una vicenda padronale, e l’inchiesta della Procura sui messaggini attraverso i quali Palazzi chiedeva alla vicepresidente dell’Associazione “Mantua me genuit” di soddisfare le sue voglie per sganciare i 2.000 euro di patronage pubblico, viene derubricata, per mera utilità politica, in una forma di devianza giudiziaria. Un effetto ottico voluto, che fa ritenere Palazzi ingiustamente accusato. Invece non sono in discussione le sue virtù private, qui è venuto alla luce l’intramontabile vizio pubblico di pretendere una dazione (sesso, soldi o altra utilità in questo caso pari sono) per concedere un diritto di cui l’eletto è custode e garante, non proprietario. Questo fa divenire insopportabile la vicenda, e ancora di più perché il protagonista è un quarantenne che promuove la nuova politica. Nuova in che senso? Non bastano i cantieri, che pure sono molti grazie anche ai finanziamenti extra (18 milioni di euro) che la sua fede renziana ha traghettato in città. Perché nel buio della coscienza ha recuperato il più antico e certo vergognoso vizio del potere: trattare il bene comune come proprietà personale; i soldi di tutti come portafoglio privato; e le scelte conseguenti: tu hai il finanziamento, tu no. Il sesso in questo caso è un elemento addirittura secondario, i messaggini hot scambiati con la vicepresidente dell’associazione, roba da ridere. Qui il vizio, la vera pornografia, è il potere esercitato in questo modo.