Sono ventisettemila le domande di condono, seicento le ordinanze di demolizione e migliaia gli atti giudiziari e le pagine dei giornali che descrivono la relazione compulsiva e ossessiva che Ischia ha con il cemento. L’isola è un vulcano e ha i lineamenti fragili di una statua di gesso. Se ogni pioggia si fa temporale, e ogni temporale muove i costoni fino a spingerli a mare, così ogni scossa, anche la meno distruttiva, compie un disastro.
TUTTO SCRITTO, tutto conosciuto, tutto così drammaticamente narrato fin da Benedetto Croce che raccontò la terribile ecatombe del 1883 di Casamicciola, dieci gradi della scala Mercalli, duemilatrecento morti: “Mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle e vedevo intorno il terriccio giallo e mi pareva di sognare (…) Mio padre, mia madre e mia sorella furono rinvenuti solo nei giorni seguenti, morti sotto le macerie”.
Eppure la storia non insegna mai, anzi Ischia acuisce il paradosso del rischio come tuffo carpiato nell’illegalità: più esso è alto e più alta è la percentuale di coloro che decidono di correrlo.
L’abuso edilizio sull’isola è infatti divenuto uso quotidiano e collettivo, sistema per campare e far campare, un modo per arricchirsi e arricchire. La corruzione, che i giuristi definiscono un reato-contratto, non ha vittime che denunciano ma appunto contraenti che fanno affari. Tu mi dai soldi, o voti, e in cambio io ti permetto di fare ciò che non si potrebbe nemmeno volendo invocare la “necessità”, una parola perfida e ipocrita che persino i grillini, per via della campagna elettorale in Sicilia, utilizzano per giustificare con pari ipocrisia la devastazione del territorio in quell’altra isola.
Il terremoto di Ischia consegna all’Italia un altro paradosso: d’ora in avanti, sperando sempre che ciò che gli abitanti e i turisti hanno subìto non abbia repliche, si conteranno i danni. Che non sono solo le macerie delle poche case cascate, o della vecchia chiesa stesa a terra, come un furbesco comunicato dei sei sindaci dei Comuni dell’isola tenta di far credere. Migliaia saranno le crepe, più o meno vistose e profonde. E migliaia le opere di consolidamento che dovranno essere compiute. Di certo le cuciture più costose – se si vorranno fare, com’è augurabile –s aranno dirette nelle abitazioni peggio costruite. E qui non c’è dubbio né scampo: le opere murarie furtive, compiute nelle notti cieche dell’abuso collettivo, saranno quelle più gravemente danneggiate. E per consolidarle ci sarà bisogno di notevoli iniezioni di danaro pubblico. Per la prima volta nella storia dissennata di questo nostro Paese la ricostruzione pubblica, garanzia e presidio della messa in opera secondo il rigore della legge, rischierà di legittimare l’abuso, istituzionalizzare per legge il fare contra legem. Se rifiutasse di aiutare gli abusivi l’isola bella, la magnifica e lussureggiante terra che guarda i campi flegrei e dà il fianco al Vesuvio, sarebbe un conservatorio di macerie disseminate, di crepe silenti e pericolose, di intonaci caduti, mura sbrecciate, tetti pericolanti o infiltrati dall’acqua.
Al danno dunque la beffa. Il danno di una classe dirigente, burocratica e politica, che ha consumato o lasciato depredare un territorio così incredibilmente ricco, fonte di un’agiatezza economica che gli isolani certo non dividono col resto del Paese, e la beffa di chiamare le Istituzioni, le cui leggi sono state disattese, eluse o vilipese, ora a intervenire.
NEL COMUNICATO col quale i sindaci hanno escluso categoricamente che gli edifici crollati fossero quelli edificati oltre la legge o contro la legge, non c’è traccia – perché non vi poteva essere – di quanti cittadini proprietari di case legali, di quelle solo sanate e delle altre insanabili, chiederanno un sostegno economico. Basteranno però poche settimane perché il censimento dei danni si compia. E il saldo finale sarà la cartina di tornasole di quanti soldi saranno necessari e a chi andranno. Né in quel comunicato c’è traccia di un’altra realtà: quante case condonate hanno poi ricevuto opere di adeguamento o consolidamento statico. Sarebbe facile per i sindaci, e utile per l’opinione pubblica e per l’immagine dell’isola, andare negli archivi degli uffici tecnici e controllare quanti ischitani o italiani che nella meravigliosa isola hanno deciso di risiedere e fare affari, costruire e trasformare in alberghi, residence, B&B le loro dimore hanno provveduto a curare col ferro le colate di cemento impoverito per via dell’abuso, a cucire con i cordoli le pareti di mattoni forati eretti sotto le stelle.
Quanti insomma, ravvedendosi, hanno scelto di mettere in sicurezza – seppure a posteriori – la propria abitazione e quanti invece hanno atteso che la sorte bussasse alla porta.
Da: Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2017