È a suo modo un miracolo italiano e nel deserto attuale di opere e opportunità, consola, un po’stranisce e un po’soddisfa. Il miracolo della povertà che si fa ricchezza è il cibo che da scarto diviene gustoso, immancabile, indimenticabile a tavola. Primato invidiabile.
Marino Niola, almeno una delle tante questioni meridionali è stata affrontata e vinta.
Si può dire vinta. Ideologicamente vinta. Perché la cosiddetta dieta mediterranea, nata tra Acciaioli e Pioppi, sulle coste cilentane, espressione coniata dall’americano Ancel Keys, l’inventore della razione kappa, il kit di sopravvivenza giornaliera dei militari, è divenuta virtù sociale, stile di vita e in qualche modo rivalsa della società ritenuta più arretrata nei confronti di quella progredita.
Dieta è la parola delle nuove ossessioni.
È il mostro quotidiano che ci affianca, intimorisce e controlla. È la parola clou del nostro terrore interiore. In questo caso la parola, coniugandosi a un mare, si trasforma e da ossessione diviene redenzione, da crisi a opportunità.
La vittoria dei cibi scarni, misconosciuti, evitati dalle tavole ricche.
Da una parte la cicoria, le fave, la pasta, l’olio, il pomodoro, il pesce azzurro. Dall’altra i grassi vegetali del nord europa, le carni pregiate americane, i tagli di pesce preziosi. Mangiare ceci, se è stagione di ceci, o fichi, se l’estate è matura e declina verso il più mite settembre, non solo fa bene, fa star bene e rende felici.
Per una volta si può dire che il sud è andato a nozze coi fichi secchi.
Tecnicamente è così. Tra l’altro Keys mangiava proprio due fichi secchi a sera prima di addormentarsi.
La dieta mediterranea appare più un elisir di lunga vita, un reticolo di antiossidanti che spingono la nostra esistenza verso un domani lontano.
No, non è un barattolo di nutrienti che si acquista in farmacia. La rivoluzione è che questi prodotti, che pure hanno le qualità di aumentare il benessere, hanno trascinato una cultura e hanno contaminato altre zone del sud. E la dieta mediterranea da semplice coesistenza di bontà dell’orto di un minuscolo lembo d’Italia, si è trasformata nel più grande volano economico, contaminando nella ricerca dell’identità persa, della memoria altre zone, altre città.
La dieta mediterranea è fatturato pubblico, è Pil.
È così. Fattura milioni di euro grazie a una coscienza del mangiare attraverso i frutti della propria terra che è divenuta stile di vita, anche espressione culturale e spinta per una nuova coesione sociale. Non è un caso che l’Unesco abbia ritenuto patrimonio dell’umanità questa dieta e la Fao l’abbia raccomandata come la più economicamente sostenibile per i popoli di nazioni in via di sviluppo.
L’indigenza che si fa eccellenza e anche opulenza.
Esempio virtuoso di come una qualità naturale possa essere trasformata da cibo in costume e stile di vita e infine, senza mai annientarla, in risorsa strategica. Le osterie che cucinano prodotti poveri e con un gusto inimitabile sono oramai decine, le industrie di trasformazione e commercio fanno affari, persino l’humus culturale trova conforto e riparo. Il cibo, senza le ipertrofie culinarie degli chef stellati, si riscopre l’unico vettore che può veramente traghettarci verso la felicità.
Finalmente una buona notizia: la felicità senza il colesterolo di mezzo.
La cicoria può battere il branzino. Davide contro Golia, chi l’avrebbe mai detto?
E le fave guerreggiare con l’angus argentino e sbaragliarlo.
E il pane cotto?
E il grano arso? Professore, questo è davvero un miracolo.
Gliel’ho detto all’inizio, l’unico miracolo italiano dopo quello del dopoguerra.
La dieta meridionale.
Mediterranea.
Chissà che mangiando bene e vivendo di più i meridionali non possano riflettere meglio sulle altre cose da fare.
Piano piano anche l’alluminio anodizzato sta venendo sostituito, e i colori delle mura si ingentiliscono.
Lei pratica l’ottimismo di chi vuole andare a nozze con i fichi secchi.
Le nozze si sono svolte con successo.
Da: Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2017