Alta o bassa, profonda o acuta. Squillante, suadente. Ugola d’oro, voce d’incanto. È madre natura a concedere i suoi favori ma poi la fatica, la passione (e la fortuna) selezionano e fanno il resto. Rossella Lampo è corista della Scala, la più prestigiosa ribalta della lirica italiana. Da 25 anni non fa che cantare, ogni sera in ogni luogo d’Italia e del mondo. Racconta qui la sua vita che scorre insieme alla sua voce. “La voce è da custodire con la gelosia di una innamorata persa. Facciamo prevenzione, per esempio adesso sono appena uscita da una seduta di inalazioni. La teniamo difesa come una mamma accudisce il suo figlioletto. La voce è tutto. Se manca, s’incrina, si appiattisce o si consuma è la fine”.
Lei è soprano, quante colleghe e colleghi ha sul palco?
Siamo in centocinque. Le signore sono soprani o contralti, i signori tenori e bassi. La distinzione entra anche nella grammatica sindacale e nei turni di lavoro. Abbiamo orari mensili che prevedono sessioni comuni, sessioni di genere o di singole voci.
La corista a che ora esce di casa?
Di norma verso le 16.30 del pomeriggio. Raggiunge il teatro e inizia la prova di u n’opera programmata molte settimane dopo. Finisce le prove, si ferma un attimo poi va in sala trucco.
Finisce le prove di un Mac – beth e inizia la preparazione di una Turandot.
Sì, sempre due opere parallele, magari in lingue diverse. La prima è una del bouquet di opere che devono essere preparate, e la seconda è quella che si porta in scena la sera.
Cantare ogni dì. Poi trucco e parrucco.
Il confronto con la cosmesi è duro. In un Macbeth il regista ci volle tutte truccate d’azzurro. Ricordo ancora una Turandotcon maschere di resina. Un caldo, un fuoco ovunque. E alcuni abiti sono così pesanti, così difficili da tenere…
La corista deve avere un fisico bestiale.
Le opere durano tre ore di media, a volte quattro, alcune si avvicinano al tetto delle cinque ore. Sempre in piedi.
Ahia, i tacchi!
Abbiamo a disposizione una calzolaia che cura ogni dettaglio. Non esiste una scarpa uguale all’altra. Il piede dev’essere ben tutelato. Però c’è il pendio del palco a creare problemi.
Il palco della Scala declina come fosse il fianco di una collina?
Non siamo sulle Dolomiti, ma il piano è inclinato per ragioni tecniche e i tendini avvertono lo sforzo.
Fatica pura.
Ci si stanca e pure tanto. Ma è una passione talmente enorme, compiuta, destinata a durare per l’intera vita che i sacrifici non li senti. Io ho quattro figli, ma quando venticinque anni fa ho vinto il concorso internazionale e sono entrata alla Scala, non c’erano mamme in circolazione. Troppo impegnativo il ruolo per potersi permettersi una gravidanza.
Si reclutano voci da ogni parte del mondo?
Ho colleghi bulgari, russi, giapponesi, cinesi, scandinavi. La Scala è l’approdo.
Siete in centocinque. Si sbuffa, si litiga dietro l’orchestra?
Il teatro è una grande comunità e le persone che assicurano lo spettacolo sono così tante che momenti di crisi o di tensione possono esservi.
Già il palco è un’enormità.
E dietro c’è un altro battaglione in guerra. Costumiste, sarte, truccatrici, scenografi, facchini.
È una città all’opera.
È un concerto corale dove il regista deve ottenere il massimo da un collettivo così diverso e così prezioso.
Lei torna a casa sempre a mezzanotte.
E oltre. I miei figli quando erano piccoli attendevano che di sentire il rumore della chiave. Per una mamma è un lavoro assorbente molto oltre la media.
Quanti giorni a settimana?
Sei su sette.
Quante ore al giorno?
Almeno cinque. Ma l’orario deve contemplare anche le tournée.
Quanti giorni di ferie?
Trentatré di fila, estate agostana.
Quanti soldi in busta paga?
Duemilacinquecento euro al mese per quattordici mensilità.
Pochi?
Per la competenza che richiede, il sacrificio e la dedizione che impone non appare una retribuzione imperdibile.
Però lei canta alla Scala.
Che c’è di meglio?
Da: Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2017