Francesco Giavazzi è il contapassi di ogni governo in carica. Per mestiere insegna, è un economista di valore e ha cattedra alla Bocconi. Per piacere, scrive. Libri e soprattutto gli editoriali che da anni riversa alla tipografia di via Solferino per la prima pagina del Corriere della Sera. Teorico del mercato, è un combattente della prima ora contro lo Stato predone. Liberista puntiglioso, non alza mai la bandiera bianca della sconfitta. Le sue idee sono chiare, i suoi nemici pure.
I giornali che legge?
Non leggo i giornali.
Non legge il “Corriere” su cui scrive?
Mi piace il Foglio, lo sento moderno e soprattutto agile. Sul Corriere invece dò un’occhiata agli editoriali. I giornali che hanno molte pagine mi mettono ansia: non ha senso sfornarli in quella dimensione. Dei fatti che accadono nel mondo sappiamo ogni cosa prima di raggiungere l’edicola. Quindi, perché leggerli?
Noi non ci stanchiamo di leggere lei invece. Dice che il mercato è l’unico rimedio contro la povertà, il liberismo l’unica medicina che ripara dalle diseguaglianze. Più impresa e meno stato. Siamo nel pieno dello scandalo che ha coinvolto il “Sole 24 Ore”, il giornale della Confindustria. Professore, se l’impresa è quella…
E lo dice a me? Guardi che per tempo dissi che il Sole non poteva avere quella proprietà. Fosse per me chiuderei Confindustria.
Come dice?
La chiuderei, completamente inutile. Osservazioni che magari non sono piaciute. Del resto una prova è che io non sia stato mai invitato al meeting di Ambrosetti.
Mai andato sul lago di Como? Il meglio dell’impresa, del pensiero economico, il crocevia dei leader.
In verità fui invitato quando lavoravo al ministero del Tesoro, anni fa, insieme a Draghi. Non mi fu possibile partecipare. Poi ho avuto modo di dire che è veramente incredibile che un imprenditore per essere lì debba pagare trentamila euro. Soldi spesi malissimo. Magari applaudirei se li investisse a solcare il mare con un bel veliero, ma darli ad Ambrosetti. Suvvia!
Lei i nemici li convoca in comitiva. Eppure sa che si dice? Che le sue prediche sono fuori tempo, il suo liberismo è fuori scala, e quando ha voluto mettere in pratica le sue lezioni di economia, Mario Monti – suo collega bocconiano allora premier, rifiutò di accoglierle.
Keynes diceva che le buone idee hanno gambe forti e hanno bisogno di tempo per vedere il successo. Saranno i nostri figli, i nostri nipoti a giudicare.
La crisi economica non finisce più, l’austerità ha ridotto gli Stati a stamberghe eppure nulla è cambiato.
Il mio piano per fare economie su scala pari a trenta miliardi di euro era più che praticabile. Naturalmente si scontrava con chi vive di rendita, e le rendite sono il ricavo funzionale dei domini sociali che nessuno combatte. L’allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera mi disse: “Con questo tuo piano la metà dei miei direttori generali rimangono senza lavoro. Il mio governo ha ancora solo sei mesi di vita…”
Ma allora perché l’austerità, la dottrina prevalente di questo nostro tempo, non paga? Tutti a tagliare, ma tutti a stare sempre peggio.
Qui bisogna fare chiarezza: osservare il tetto del tre per cento nel rapporto deficit/Pil è un obbligo comune a tutti i paesi dell’Unione. Ma l’Unione non dice come ciascuno debba rispettarlo. Una cosa è se tagli la spesa, altro se aumenti le tasse. Bene, noterà che la Spagna che ha ridotto la spesa pubblica sta messa meglio di altri che invece l’hanno lasciata inalterata.
La colpa – lei dice – è delle lobbies.
Benetton è stato un grande imprenditore del tessile. Poi la sua attività si è espansa e si è messo a gestire anche i caselli autostradali. Detto che io penso che sia sempre meglio far gestire le autostrade a un privato, quella può divenire una rendita parassitaria. L’imprenditore non ha l’obiettivo del bene comune, ma del profitto individuale.
L’Italia è un covo di rendite.
Perciò non capisco perché i cittadini non si stufino. Non comprendo perché non si battano in favore di Uber per esempio. Apre un mercato nuovo nel trasporto privato, riduce i costi e aumenta le possibilità per tanti.
Il suo nemico, a leggere il titolo del suo ultimo libro (“I signori del tempo perso”), sono i burocrati. Loro ostruiscono.
È una macchina infernale. Nulla cambia perché ciascun potere esercita un diritto di veto. Nel libro faccio l’esempio del ponte di Bassano in Veneto, l’unico in legno del Palladio. Sta cadendo e da dieci anni non si muove foglia: c’è sempre chi osserva, ritarda, ammonisce, interdice.
E alla fine?
Alla fine il ponte cadrà.
Da: Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2017