Quando ho udito quella parola mi sono detto: ma io che ci faccio qui?
Gianni Cuperlo era in tv a spiegare che – a suo giudizio – il ministro Luca Lotti avrebbe fatto bene a fare un passo indietro quando Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale (proprio lui!) l’ha accusato di sciacallaggio.
Una ferita enorme, un senso di straniamento.
Il mondo alla rovescia. L’accusa arriva dal direttore del quotidiano berlusconiano, seguita a ruota dalle parole di Emanuele Fiano, suo compagno di partito.
Fiano ha fatto un post di scuse e precisazioni.
Il punto qui mi sembra un altro: la sua posizione appare così eccentrica rispetto alla linea generale che un giudizio, grave ma misurato, viene sfregiato da una offesa.
Ho condotto tutte le battaglie, magari alcune le avrò sbagliate, ma non ho mai consumato parole che non sentissi adeguate, senza nessuna voglia di essere ridondante, di esorbitare dal contesto e appunto dalla misura. Avrò ecceduto comunque? Quel che vedo invece è il senso di umiliazione che questa e altre vicende hanno fatto vivere a tanti compagni. Non soltanto coloro che sono andati via, ma a quelli che ci hanno abbandonato, o che noi abbiamo lasciato per strada, durante questa marcia dissennata verso lo smantellamento di ogni connessione sentimentale con il nostro popolo, con l’ambiente che in noi vedeva l’avvenire, il nuovo, la possibilità di un riscatto. Io è a questo che voglio reagire.
In 3 anni Matteo Renzi ha consumato ogni dote?
Ma all’inizio la speranza accesa era fortissima, e non ho mai nascosto che il suo cambio di passo ci abbia condotto a quel risultato strabiliante del 40 per cento alle Europee. E quella parola, rottamazione, che io stenterei a usare anche se dovessi parlare della mia automobile ha avuto il suono di un ultimo avviso, un po’ simile al comizio che Nanni Moretti tenne 15 anni prima. Quell’invettiva dal grande spessore etico con cui il regista sferzò la sinistra, la costrinse a pensare anche se non riuscì a correggerla.
Però Renzi sembra si sia già andato a schiantare.
Anch’io penso che il suo ciclo politico sia finito. E non è questa parentesi giudiziaria che spero si chiuda presto e bene. Sono le cose, i fatti. Tre sconfitte (Regionali, Amministrative e poi il referendum), di cui l’ultima davvero capitale, dicono che il Paese chiede altro.
Finiscono, per motivi opposti, anche le sue speranze di resistere in questo Parlamento.
Non è il problema e potrà accadere a me come a chiunque di fare politica fuori da qui. Ho dieci anni di mandato come da regolamento (anche se le deroghe alla regola sono così numerose da perdersene il conto), so di essere stato e di essere un privilegiato ma spero anche di sapere quando è giusto fermarsi.
Le toccherà trovarsi un’altra occupazione.
La cosa più bugiarda che si possa dire è che la politica non debba essere un impegno professionale, a tempo pieno. Fare politica è un mestiere difficile e oggi contiamo i danni per aver affidato ruoli delicati a persone che non avevano passione né competenze all’altezza. Superficialità, trascuratezza quando non proprio ignoranza. E mi fermo qui. La crisi è davanti ai nostri occhi.
Lei sembra un osservatore neutro, lontano oramai dal Pd. Estraneo a esso. Cosa ci fa ancora? Non si è accorto della trasformazione antropologica, non è ancora convinto che nel partito di cui ha la tessera siedono persone alle quali lei non stringerebbe mai le mani?
Occorrerebbe una rigenerazione. Occorrerebbe che i trasformismi e gente che si fa traghettare da un lido all’al tr a trovasse un muro oltre il quale non andare.
Tre ex segretari hanno lasciato il Pd. Le dice qualcosa?
Se i numeri di questa scissione ancora non fanno impressione, certo l’immagine carpita a Graziano Delrio, la crepa nella diga è adeguata a fornirci l’esatta dimensione del pericolo che stiamo vivendo. La crepa apre un fronte d’acqua, e anche se il flusso appare all’inizio modesto, è sempre acqua che esce dalla muraglia e svuota l’invaso. Ma poi c’è una seconda considerazione da fare: la crepa produce l’idea di un pericolo imminente. Chi mai ci passerebbe accanto?
Il Pd come un morto che cammina?
Io penso che sia nato storto, che abbia sognato di risolvere i suoi problemi ritenendo che bastasse un programma comune con personalità di e esperienze diverse. Invece non è così. È stato sradicato il costume che ci teneva uniti mentre il mondo cambiava e a noi adesso mancano le parole per descrivere questo nuovo mondo e un pensiero per governarlo. Ma la sinistra è viva se alimenta speranze e persino utopie. E io credo che il punto sia lì, nel voltare pagina pensando a scrivere quella successiva. Provarci è il minimo.
Da: Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2017