Ieri, ai margini della cronaca quotidiana, ha trovato un piccolo spazio la notizia di quattro corpi di poveri cristi, due dei quali – padre e figlio – trovati ghiacciati ai margini della strada che doveva condurli alla ricerca di un po’ di cibo. Non sono morti che contano nell’Abruzzo incarcerato e isolato, costretto a chiudersi in casa e sperare che qualcuno ancora oggi se ne accorga e prenda cura. Sono i paesi sommersi e sepolti più che dalla neve dall’incuria e dalla dabbenaggine dello Stato che proprio qui, fino a pochi anni fa, vantava il miglior sistema di mobilità esistente: il treno. La littorina prima, il locomotore elettrico poi erano dotati di una lancia d’acciaio anteriore, il rovere, che bucava la neve, spalancava la strada ai vagoni e congiungeva paese a paese. Proprio a Sulmona nasceva la tratta in quota più alta d’Italia, il collegamento lungo il crinale montuoso che legava l’Abruzzo al Molise: da Sulmona a Roccaraso, poi Castel di Sangro, Isernia e infine Carpineto. Paravalanghe a coprire i fianchi, il rostro sul muso della locomotiva ad aprire la strada e via. Era chiamata, infatti, la transiberiana d’Italia.
LA CATASTROFE di questi giorni è stata soprattutto una profonda, irreversibile crisi della mobilità. Dal 1990 in poi l’Italia ha smobilitato, liquidato e fatto arrugginire circa ottomila chilometri di tratte ferroviarie ritenute di serie b: i cosiddetti rami secchi. Nel quadrilatero della crisi i treni non esistono praticamente più. Resiste la linea del mare, la cosiddetta Adriatica, e basta. L’attraversamento, se si può definire tale, è solo lungo la via di Orte e punta su Ancona. L’Italia interna è fuori dalle linee ferroviarie, l’unico sistema di trasporto sicuro e soprattutto popolare. Il taglio dei “rami secchi” – il costo economico che procurava il mantenimento del servizio – è spesso servito da paravento, ottimo motivo per agevolare il business della gomma, naturalmente assistito da provvidenze pubbliche. Così, semplicemente, i soldi si sono spostati dai treni ai bus. A nord dell’area colpita, la Fano-Fossombrone è stata liquidata, malgrado fosse sempre ricca di viaggiatori e quella tratta congiungesse il mare all’interno con tempi di percorrenza di gran lunga inferiori a quelli che oggi impegnano i bus sostitutivi.
Uguale, per modalità e tempi di disattivazione, le altre linee che collegavano l’Italia interna alle città: Pescara di qua, Roma di là. E così, paradosso nel paradosso, il governo italiano si prepara a spendere quattro miliardi di euro per far fronte all’emergenza terremoto, pronto a impegnarne almeno altrettanti per l’enorme area devastata dalla catastrofe che è anche quella maggiormente colpita dall’abbandono, senza imputarne uno solo per riattivare i collegamenti su ferrovia, linfa vitale dell’economia locale.
VOLTERRA, da quando ha perso il treno, ha perduto la metà dei suoi abitanti. “Abbiamo in mente di utilizzare i fondi europei”, ha detto il commissario Vasco Errani. Quindi tutto da progettare, da definire, da programmare. Un domani, forse, chissà… Con Rieti, dove ha sede il centro operativo dell’emergenza che da settant’anni discute e aspetta il suo treno per Roma e Amatrice, il paese martire, che patisce a uno spopolamento che l’ave – va già aggredita e che ora rischia di metterla al tappeto. Forse avremo le case, prime e seconde, ma chi le abiterà?
Da: Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2017